Un nastro d’argento significativo e metaforico avvolge i titoli premiati quest’anno dal Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani. E’ la cinghia che definisce un sentimento, quella commossa partecipazione nei confronti dell’altro che non chiede altro che potersi esprimere semplicemente, senza tornaconti o inibizioni. Un sentimento in apparenza indefinibile ma che in molti, per facilità, chiamano tenerezza. Se la stagione cinematografica italiana 2016-2017 passerà alla storia come quella della “tenerezza” sarà stato anche per i premi (non solo quelli principali) conferiti dal Sindacato dei giornalisti specializzati del settore. Ma andiamo con ordine. Alla 71° edizione dei Nastri d’Argento il trionfatore è stato, come annunciato, il dolente e sensibile film di Gianni Amelio “La tenerezza”, opera che è riuscita a conquistare, con la sua dimensione di cinema popolare, rigorosa e al tempo stesso intimista, tanto gli spettatori (di una stagione priva di incassi esaltanti) quanto i votanti, quelli che per le mani avevano anche il cinema duro e senza sconti di Daniele Vicari (“Sole, cuore, amore”) e l’altro più astratto e metaforico di Marco Bellocchio (l’autore più dimenticato nelle recenti stagioni dei premi e presente nelle candidature con “Fai bei sogni”).
( I premiati Gianni Amelio e Renato Carpentieri per “La tenerezza”)
Ma l’osannato “La tenerezza” (premio anche per la regia) non è soltanto un film di Amelio, ma soprattutto una splendida partita a quattro giocata da due diverse generazioni d’attori. Così se da un lato stanno una -ormai collaudata- coppia del nuovo cinema italiano (Elio Germano-Micaela Ramazzotti) e una più matura e straordinaria Giovanna Mezzogiorno, dall’altro c’è soltanto lui, Renato Carpentieri, volto teatrale prestato fin troppo tardi al cinema (dall’Amelio di “Porte Aperte” in poi per la precisione) ma in simbiosi quasi naturale con esso. Carpentieri nel film di Amelio semplicemente “è” il cinema. E’ l’emozione compressa in uno sguardo accigliato, il cinismo irresponsabile del “non detto” e soprattutto la tenerezza che aspetta di erompere da un’increspatura del volto o da un sommesso e sofferto ringhiare della voce. E’ il miglior attore dei Nastri d’Argento 2017 e su questo, con buona pace degli altri pur bravi candidati, non si discute (anche se ci sarebbe piaciuto vederlo sul palco accanto a Greta Scacchi, protagonista di una gelida e folgorante apparizione che da sola poteva valerle un premio come attrice non protagonista).
(Le gemelle Fontana di “Indivisibili”, Enzo Avitabile miglior canzone e colonna sonora, Jasmine Trinca premiata per “Fortunata”)
Ma c’è un’altra tenerezza a far da protagonista a questi Nastri 2017 ed è quella di una sorellanza carnale, psicologica e colma di una devozione quasi mistica. E’ il sentimento che invade l’opera (forse la più abbagliante fra quelle italiane presentate a Venezia 73) del bravo Edoardo De Angelis. “Indivisibili” è infatti l’altro vincitore assoluto della serata, l’outsider che torna a casa ornato di premi “pesanti” come quello per soggetto, costumi, canzone e la sanguigna colonna sonora di Enzo Avitabile (autentica non protagonista del film) oltre che di un doveroso Biraghi per le due giovani esordienti, le bravissime e solari gemelle Fontana (Marianna e Angela). Un affetto, quello raccontato nel film fra le siamesi Viola e Dasy, che va ridefinendosi progressivamente sullo sfondo di una Castelvolturno arida e magica, terra riarsa e piena di orchi ove il misticismo artificioso e paesano si scontra col candore delle due peccerelle e con il loro lecito bisogno di separazione. Sentimenti che questa favola partenopea sulla crescita celebra e che sul palco si suggellano idealmente nella dedica più bella, quella di Enzo Avitabile per il compianto Jonathan Demme che al musicista aveva dedicato il sentito documentario “Enzo Avitabile- Music Life”. Altro premio, altra tenerezza, quella della protagonista di “Fortunata”, una bellissima e gioiosa Jasmine Trinca che da quel personaggio di moderna ed inquieta Mamma Roma alle prese con la costruzione del suo pezzetto di cielo sulla terra per sé e per la figlioletta, ha mutuato umiltà e fierezza non comuni. Batte l’altra meritevole candidata dell’anno (Isabella Ragonese, per la quale un ex-aequo sarebbe stato cosa buona e giusta) e si porta a casa anche il premio Wella per l’immagine. Non, ovviamente, per quel look periferico e scollato sfoderato nel film ma per l’indiscutibile capacità di rendersi elegante anche dentro quegli abiti.
(“Fai bei sogni”, “Sicilian Ghost Story”, “L’ora legale”)
Anche il premio al Francesco Bruni sceneggiatore di “Tutto quello che vuoi”, storia di un incontro fra generazioni culturalmente e socialmente diverse (illuminata dalla presenza di Giuliano Montaldo, quest’ultimo anche Nastro d’Argento Speciale), in fondo non è che un segnale di assenso dei giornalisti a quel romanzo tutto nostrano che mira ancora a raccontare di lasciti storici ed emotivi fra individui di oggi e di ieri. Soltanto due riconoscimenti per montaggio e scenografia incoronano invece l’altro personalissimo diario sulla tenerezza dell’anno che è “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio, film lontano dalle iperboli narrative, politiche e metafisiche dello splendido “Sangue del mio sangue”, eppure capace, nella sua veste più pacificata di romanzo sulla memoria, di evocare nello spettatore molto più che istantanee autobiografiche d’autore quanto autentiche suggestioni familiari collettive. Sul perchè poi un cinema colto e abbagliante come quello di Bellocchio non riesce (più) a far breccia su giurie e sindacati si potrebbe aprire un dibattito puramente culturale. Ma questa è un’altra storia. Tra emozione e impegno sociale si colloca invece la fortuna di “Sicilian Ghost Story” (premio alla fotografia del grande Luca Bigazzi ex-aequo con “La tenerezza” e premio per la scenografia insieme a “Fai bei sogni”), proposta italiana cannense che si carica sulle spalle il difficile fardello di raccontare l’inenarrabile (e il non rappresentabile) di una pagina amarissima della cronaca siciliana attraverso la lente deformante del fantastico e quella più impulsiva del sentimento adolescenziale. “Sicilian Ghost Story” è una cronaca mafiosa e terrificante, ma è anche una fiaba boscosa ambientata nelle selve di un’immaginazione orgogliosa e femminile che vuol crescere, lottare (contro tutte le omertà) e soprattutto innamorarsi. Nell’anno della tenerezza l’orrore può soccombere dinanzi alla potenza dell’amore e l’ultima sequenza sulla spiaggia nel film di Grassadonia e Piazza, non a caso, è quella che più corrobora e dà pace. La commedia italiana ripiegatasi -dopo le celebrazioni orgiastiche del Checco nazionale- su produzioni minori e incassi frammentati, premia quest’anno, com’è giusto che sia, il cinema popolare e impegnato di Ficarra e Picone. “L’ora legale”, del resto, è la commedia per tutti che non fa sfigurare quel poco cinema italiano di successo presente nella Top 20 di stagione. Prestano loro il fianco, e arricchiscono il quadro delle caratteriste che lasciano il segno, l’esilarante Sabrina Ferilli del grottesco “Omicidio all’italiana” e la bravissima Carla Signoris, moglie di Toni Servillo in “Lasciati andare”. E se la Signoris resta una conferma comica, vorremmo vedere più spesso la Ferilli in ruoli estremi come quello ritagliato per lei dal folle Maccio Capatonda. Ancora commedia poi nel premio “Nino Manfredi” consegnato dalla rampante Erminia (85 anni vissuti come fossero 45) al duo Pierfrancesco Favino-Kasia Smutniak alle prese con scambi di corpi, ruoli e responsabilità in “Moglie e marito” film, di cui lo stesso Pierfrancesco, mattatore sempre scatenato, restituisce sul palco un frammento attraverso un’esilarante interpretazione-imitazione (di Kasia s’intende).
(Pierfrancesco Favino e Monica Bellucci, Luca Argentero ne “Il Permesso”, Sabrina Ferilli in “Omicidio all’italiana”)
All’insegna del dramma sul riscatto e di un intimismo furibondo e viscerale il premio per il miglior attore non protagonista. Alessandro Borghi (Fortunata, Il più grande sogno) non è soltanto il volto perfetto per incarnare il ragazzo delle periferie, ma un talento dalle sfumature ancora tutte da scoprire. I Nastri di appena un anno fa (Suburra, Non essere cattivo) ci avevano visto giusto. Il cinema cosiddetto di genere invece è presente all’appello dei premi solo grazie al bravo Claudia Amendola e al suo teso “Il permesso 48 ore fuori” (premi ai giovani Valentina Bellè e Giacomo Ferrara e a Claudio Amendola e a Luca Argentero come personaggi dell’anno Persol), mentre il Biraghi giovani, dedicato giustamente al Josciua Algeri, protagonista di “Fiore” prematuramente scomparso a 21 anni, accomuna, dopo le sorelle Fontana di Indivisibili, i giovani attori de L’estate addosso, Fiore, Piuma e Slam- Tutto per una ragazza. A “Piuma” di Roan Johnson infine l’altro premio speciale e “giovane”, senza dimenticare, naturalmente, il nastro per il miglior esordio registico assegnato al promettente Andrea De Sica per “I figli della notte”. E se Roberto Faenza viene premiato per aver raggiunto l’onorevole soglia dei 50 anni di carriera, c’è spazio sul palco anche per il ritiro “tardivo” del nastrino del sindacato (quello celebrativo dei 70 anni) conferito a uno scatenato Tony Renis assente proprio un anno fa. La partecipazione al film “On the milky road” di Emir Kusturica è poi il pretesto per celebrare col Nastro d’Argento Europeo il fascino assoluto di Monica Bellucci (inaspettatamente e sobriamente lontana dai divismi che in molti invece si attendevano), ormai assurta a puro brand tricolore. Molto umilmente lei si difinisce un po’ zingara (col cuore in Italia però), ma in verità resta l’elegante testimonial italiana che tante superproduzioni mondiali ormai si contendono. Anche questo è Made in Italy.
(Un “nastrino” per Tony Renis, “The Young Pope”, il cast femminile di “7 minuti”)
Quello dedicato a Malèna – insieme al Nastro Hamilton Behind the Camera conferito a Gabriele Muccino- è uno dei pochi momenti dal respiro internazionale all’interno di una cerimonia che ha preferito lasciare la grandeur d’autore sbirciare fuori dalla porta. Il Nastro dell’anno all’evento mondiale The Young Pope di Paolo Sorrentino è sì fra i riconoscimenti più importanti, ma è anche quello che (complice l’assenza di autori e protagonisti della serie) scivola via senza troppi strascichi nel corso di una manifestazione che puntava piuttosto a celebrare il cinema delle piccole storie e i suoi anonimi protagonisti. Così il dramma silenzioso e brutale della crisi economica in “Sole, cuore, amore”, la battaglia serrata contro il tempo e fra le quattro mura della fabbrica delle operaie di “7 minuti” (premi speciali rispettivamente ai registi Daniele Vicari e Michele Placido) o infine la sfida ancestrale dell’uomo contro una natura che si impone implacabile dinanzi a esso ( l’invisibile “Monte” di Amir Nader, premio per il duo Sartoretti-Potenza), stanno lì a dimostrare che la grandezza del cinema italiano non risiede tanto nei soggetti prescelti ma nella capacità di raccontare piccole storie come fossero imprese memorabili. Si tratti di Papi anticonformisti che introducono a nuove ere o di uomini che in un’epoca indefinita intendono abbattere a picconate quella montagna che ruba loro la luce.
(“Sole, cuore, amore”, “Fortunata”, “Cuori puri”)
Frammenti di un cinema importante quello premiato dal Sindacato, ma che pecca ancora di visibilità (se non, addirittura, di semplice conoscibilità) presso quel popolo al quale invece vorrebbe rivolgersi con maggior forza e determinazione. Un cinema di cui i premi, troppo spesso, si limitano solo ad evocare l’esistenza e che raramente riesce ad essere rilanciato. Un racconto della tenerezza che sta lì ad attendere la (ri)scoperta da parte di un pubblico colpevolmente disinteressato (Amelio stesso invita la platea del teatro a cercare il suo film nelle arene perché, giustamente, ancora orfano, proprio come gli altri, di nuovi potenziali spettatori). Un cinema forse più duro ma anche per “Cuori Puri” ( come l’eccellente esordio di Roberto De Paolis che è valso al bravissimo protagonista Simone Liberati il premio probabilmente più significativo della serata, quello intitolato a Graziella Bonacchi). Narrazione popolare sì ma nella migliore accezione del termine e non nella deriva ruffiana e “sfascista” (del gusto) che la televisione ha imposto con prepotenza sull’immaginario domestico. Pagine fiere di un romanzo realista che attende una partecipazione nuova (a storie, ai drammi e a un sentimentalismo più sfumato e non manicheo) e soprattutto l’empatia di quella platea diventata purtroppo e negli anni assai più incolore che tricolore. La rinascita del gusto non potrebbe cominciare proprio da questo sentimento? Da questa insolita, indefinibile e rinnovata tenerezza nei confronti del cinema italiano? La risposta la scriverà solo chi tornerà in sala o in arena durante queste torride, inargentate serate estative.
(L’appuntamento in tv con la serata dei Nastri d’Argento è per il 14 Luglio, ore 23.20 su Raiuno)
Andrea Lupo
Foto di Danilo Vitale