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Animali notturni- la recensione

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Carni piene, molli e senili danzano su uno sfondo di drappi rossi mentre le note scaturiscono da un altrove quasi hitchcockiano. Majorettes attempate e tremolanti come gelatine catturano lo sguardo, trascinandolo a forza dentro l’affascinante indecifrabilità della metafora che incarnano. Non sappiamo ancora cosa vogliano comunicarci (lo sfavillìo di un cerimoniale a stelle e strisce e insieme la sua decadenza?) eppure siamo intimamente attratti dall’oscena, poetica coreografia che quelle figure sfatte e ballonzolanti disegnano sul palco. Potremmo già accontentarci di questa semplice sensazione ma la mente moderna, schiava dalla sua stessa razionalità, reclama a gran voce anche un senso a un incipit così potente e dalle ascendenze vagamente lynchiane. Ecco giungere allora lo “svelamento”, quello che addomestica subito l’evocativa pantomima iniziale riconducendola entro maglie formali e sociali più rassicuranti. Non si tratta di visioni provenienti da un qualche subconscio ma di installazioni artistiche a uso e consumo di un pubblico presente in galleria. Rifiuti americani al gusto acido di burro di arachidi, inscatolati qui in lussuosi e conformisti tetrapak alto-borghesi. Sono l’emblema di un’America che balla sulle note del proprio funerale ma soprattutto la metafora di un’immagine che abdica a se stessa in favore del significato intrinseco ad essa.

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L’attacco iniziale sui titoli di “Animali notturni” di Tom Ford sembra quasi legittimare una inedita – e, per un esteta come lui, quasi rivoluzionaria – dichiarazione d’intenti: l’artista moderno deve rendere pienamente conto dell’opera e quest’ultima deve essere, se non del tutto spiegata, quantomeno giustificata, proprio come quelle ballerine che danzano senza un vero perchè. Il contenitore quindi deve dar conto del contenuto e la sensazione divenire quasi subalterna rispetto al senso (in termini di significato). Racchiusa in quell’incipit sembra esservi dunque la (s)confessione silente di un regista che fugge la filosofia fieramente estetizzante della sua opera prima per abbracciarne un’altra quasi in contraddizione. Così se in “A single man” si solennizzava tramite sequenze chirurgiche e meravigliosamente snob una tragedia interiore non altrimenti esternabile (il lutto che affliggeva il protagonista), qui invece si affondano le mani in un dramma già imploso (l’insoddisfatta, solitaria esistenza della protagonista) di cui le immagini forniscono non tanto un raffinato corredo, quanto le necessarie e ulteriori coordinate psicologiche (divenendone, a un certo punto, quasi una “romanzata” contraddizione). Un incipit, quello del regista, che mira sottilmente a svelare l’intimo segreto del meccanismo narrativo che seguirà, di quel sinuoso e raffinato lavorare su piani diversi dell’immagine e della parola scritta (che genera a sua volta un’immagine) facendo dell’apparenza narrativa e formale il perverso e affascinante veicolo di un significato altro.

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Ford, innescando un procedimento inverso a quello usato nel precedente “A single man” dimostra qui di non voler far uso soltanto della forma, ma di voler attingere a diverse e possibili forme (del cinema e dei generi narrativi, sconfinando perfino nel meta-cinema), per far accedere l’osservatore a un complesso bagaglio di sensi e contenuti. La sua è una storia –con dentro una storia che a sua volta ne racconta un’altra– in cui l’immagine stessa da contenitore a senso unico diviene visione frantumata della verità e dei sentimenti e che si serve del cinema (e dei suoi meccanismi di affabulazione) per amplificare ulteriormente questa vertigine percettiva. Ma quello di “Animali notturni” non è soltanto un affascinante esercizio di raccordo fra stili americani e novelization, flashback e flashforward, psicodramma di lusso (e di classe) e cruda opera americana sulla provincia (con l’ombra di Cormac McCarthy su tutto), ma è soprattutto una storia che ha al suo centro un cuore cupo e autentico, una vicenda che si fa strada attraverso un viluppo di dolori e misfatti tutt’altro che snob o cervellotici. Perché i rimpianti sentimentali, la crisi delle aspirazioni o le frustrazioni professionali e personali portati in scena da Ford non rappresentano esclusiva di un’elite ricca e distante, ma coinvolgono verticalmente ogni possibile classe sociale. Perchè, sembra volerci dire, siamo tutti animali notturni quando la notte in questione è quella che avvolge l’anima.

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Potremmo godere semplicemente della duplice narrazione esistente nel film senza obbligarci a trovare nessi fra la storia vissuta dalla protagonista e quella evocata invece dalla lettura del romanzo e ci ritroveremmo comunque per le mani due ritratti perfettamente speculari della medesima disfatta umana. Perché gli animali notturni richiamati dal titolo sono anche entità intercambiabili. Ora creature insonni sull’orlo di un precipizio dorato (Adams), altrove bestie feroci vomitate dal buio di una strada provinciale (Aaron Taylor-Johnson) . Riflessi sociali -e, perchè no, cinematografici- le une delle altre, forme di vita e di morte che procedono spedite verso il medesimo destino di responsabilità, tradimento e solitudine. Da un lato c’è Susan, gallerista che ha barattato l’arte pura per la sua esposizione, l’invenzione per la mercificazione e un destino possibile con un altro semplicemente stabile; dall’altro sta invece Tony, il fantasma di un sognatore, il tormento nella creazione letteraria, la relazione soppressa e il destino rimosso. L’infelicità è il tratto comune delle loro vite, i sogni in frantumi l’unica filiazione possibile e la sopravvivenza il motore delle loro azioni residue. Due grovigli esistenziali un tempo uniti ma adesso distanti, animali perduti(si) nel limbo delle rispettive vite, creature destinate ad incontrarsi soltanto nel ricordo o per mezzo di un manoscritto (dal titolo, appunto, “Animali notturni”) che lui le fa pervenire a quasi vent’anni dalla fine della loro relazione. Ed è proprio quel manoscritto ad innescare il dialogo silenzioso tra quei due oltretomba; quello rancoroso e introverso in cui è confinato Tony e il purgatorio lindo e solitario di Susan. Nervature spezzate di una relazione che la pagina scritta idealmente riavvicina e l’immagine a suo modo salda (riunendo insieme ciò che nella realtà non si incontra più), ma anche frammenti di un discorso affettivo e sociale (in sospeso) che attendono di essere riconvertiti in nuove forme. Su quel piano parallelo e romanzato gli animali notturni diventano così padri incapaci di reagire, donne spezzate come fuscelli e fiere che azzannano alla giugulare nella notte. Prede incaute che attraversano strade buie, belve che abitano baracche ai confini del nulla e cuccioli che giacciono morti su vecchi divani. Sono alter-ego dalle forme brutali e dolorose, proiezioni di una vendetta che cerca giustizia nella compensazione e perfino l’imago di un american dream divenuto cadavere su un drappo rosso (anticipato forse proprio da quelle carni molle che danzavano sui titoli di testa). Una finzione- quella che Tony sottopone a Susan- che forse è vera o magari è solo la verità in cerca di una messinscena. Il palco che attende il suo j’accuse con noi davanti a far da muti testimoni.

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Una trasfigurazione, quella operata da Tony nella finzione, che prende di mira i valori della upper class di Susan fagocitandoli rabbiosamente e restituendoli (vomitati?) all’interno di un contesto -letterario, visivo, cinematografico- perfettamente antitetico rispetto al levigato universo della protagonista. La provincia romanzata da Tony dunque non è altro che il corrispondente morale del ricco microcosmo losangeliano di Susan (quello di cui Laura Linney, in un cameo memorabile, offre una descrizione affilata ed efficace quanto un bignami), messo da lui sotto accusa insieme agli scagnozzi familiari che lo presidiano. Quel che conta al termine della storia (e di tutte le storie del film) sembra essere più l’atto che il fine (o la fine), il durante rispetto al dove, l’accusa più che la condanna. L’atto creativo (letterario e cinematografico) contro la mortificazione dell’ispirazione e la soppressione (non soltanto metaforica). Non c’è catarsi nella risoluzione finale perchè in fondo non era a questo che si puntava fin dall’inizio (e l’ultima, intensissima inquadratura sugli occhi di Amy Adams non fa che siglare l’ulteriore permanenza dentro quel limbo). Viene da pensare, a giudicare da tanta profusa disillusione, che forse tutto il discorso del regista non vertesse sin da principio su questo. Perché al di là dell’algida perfezione formale che investe storia e ambienti (interni domestici come obitori, pareti che urlano “Revenge”), dell’esemplare rigore narrativo sfoderato (ma con meno compiacimento rispetto al passato) e della coerenza psicologica della vicenda, quello che a Ford interessa fare con “Animali notturni” è probabilmente intonare un puntuale e personale elogio funebre alla sua stessa classe di appartenenza. E chissà che il tormento interiore di Susan, che si confessa inizialmente a un amico durante il party in galleria rivelandogli di non amare più “ciò di cui si occupa”, non sia anche il medesimo del Tom Ford stilista. Il suo “Animali notturni”, così inteso, diverrebbe allora il disilluso equivalente cinefilo di un’installazione artistica sulle carni sfatte e molli del proprio mestiere. “Il nostro mondo è molto meno doloroso di quello reale” potrebbe rispondergli un compassato Michael Sheen. Quello del cinema, a questo punto, non diventerebbe una meravigliosa terapia?

 

Andrea Lupo

 

 

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