Può esistere un cinema capace di filmare la tragedia mantenendo la propria moralità di sguardo? Sin dove può spingersi l’obiettivo della cinepresa quando ad essere inquadrato e composto per immagini vi è l’eccidio di massa “storico” per antonomasia? Dove finisce il riserbo per l’orrore e ha inizio la spettacolarizzazione (anche involontaria) dello stesso da parte di un autore? Il cinema della Shoah non può smettere di porsi simili interrogativi soprattutto a vent’anni di distanza da quello “sdoganamento” visivo dell’Olocausto avvenuto proprio per mano di un ebreo (Steven Spielberg). E anche se “Schindler’s List”, film hollywoodiano, sontuoso e per molti “colpevolmente” commovente, rimane un’opera limpida e perfettamente incastonata nella poetica “fanciullesca” del suo autore (un brutale racconto di formazione incentrato sulla metafora del denaro e sull’ infungibilità dell’essere umano), il filone cinematografico che da esso è disceso non di rado ha dato luogo a operazioni furbe, tanto commerciali quanto insincere, sull’eccidio degli ebrei.
“Il figlio di Saul”, opera prima dell’esordiente ungherese László Nemes, si muove sul solco opposto
rispetto al sopra citato filone, dimostrando da subito di aver interiorizzato la lezione del miglior cinema europeo, quello più rigoroso e radicale, capace di rappresentare gli spettri senza doverli inquadrare voyeuristicamente, un cinema che sa trasportarci sull’orlo di un buco nero mantenendo però integrità ed una lucida eloquenza. E’ un film, quello di Nemes, che non edifica alcun santuario (auto) assolutorio per il popolo israelita e che parla di uomini ancor prima che di ebrei o di vittime, senza adagiarsi sulla facile rappresentazione di dinamiche persecutorie talmente abusate da essere divenute (al cinema s’intende) quasi manichee. Ne “Il figlio di Saul” va dunque in scena l’odissea umana dei sonderkommandos, quegli ebrei reclutati come assistenti dei boia per rimuovere i corpi della propria gente dalle camere a gas e incaricati di provvedere successivamente alla loro cremazione. Una “manodopera dell’orrore a tempo determinato”, costretta a lavorare fino al giorno della propria esecuzione. Fra essi c’è anche Saul, angelo della morte allucinato e silenzioso (un grandioso Géza Röhrig), che sottrae allo scempio dei forni il corpo di un giovane ebreo deceduto casualmente davanti ai suoi occhi con lo scopo di donargli l’estremo kaddish e un giaciglio di terra lieve.
Se sia realmente il “figlio di Saul” o, più semplicemente, un corpo del quale il sonderkommando sceglie pietosamente di assumersi una paternità fittizia, non ci è dato sapere; Saul persegue con ostinazione il suo scopo dinanzi ai compagni che lottano, rischiando (in) coscientemente l’incolumità propria e la loro e bilanciando con la sua ossessione per la morte quell’imperturbabilità dinanzi alla vita (che muore) che il lager gli ha dispensato come fetido rancio quotidiano. Anima avvelenata e volto desaturato da ogni colore e sorriso, Saul è un morto vivente fra i vivi morenti, prigioniero, prima ancora che di un lager, della propria prospettiva senza luce. Per questo motivo il film stesso (grazie a una straordinaria intuizione stilistico-espressiva) non può che sposare il formato 4:3, lasciando fuori fuoco l’orrore dei corpi trascinati lungo i corridoi e mantenendo il suono delle urla e dei pugni che battono sui muri volutamente in secondo piano. Non si tratta soltanto di una scelta “necessaria” per salvaguardare l’eticità del linguaggio di fronte all’inenarrabile (scelta che diventa però espediente di spaventosa efficacia comunicativa), ma della logica conseguenza di un preciso approccio narrativo e registico. Il mondo che “possiamo” guardare dalle spalle del suo protagonista è infatti anche il solo che Saul “riesce” a focalizzare nella sua percezione valoriale ormai alterata. E’ un universo traumatizzato e immemore, che si trascina nell’automatismo dei gesti e nell’inerzia emotiva (Saul rifiuta il minimo contatto con una donna) e in cui residuano soltanto le spoglie di una ritualità lontana, più da ossequiare che da osservare. Sono le spoglie di una liturgia in cui l’elemento “accidentale” e scatenante dell’azione -il corpo da assicurare alla sepoltura- da contrappasso necessario per recuperare l’ umanità perduta dentro l’abominio diventa anche l’ occasione per dare requie alla propria anima ferita e non del tutto arresa.
Una missione, quella autoaffidatasi dal protogonista, che troverà compimento non tanto nella realizzazione materiale dell’obiettivo, quanto nella contemplazione finale della libertà e soprattutto nell’inatteso scambio di sguardi fra lui e un piccolo fuggitivo (o collaborazionista), simbolo, quest’ultimo, di quella vita che può proseguire e soprattutto di una redenzione finalmente giunta anche per lui e da accogliere col sorriso. Il mandato assunto da Saul finisce così per travalicare le barriere soggettive dell’ossessione personale, tramutandosi significativamente in una sorta di salmo finale solenne e misericordioso, un kaddish universale che oltrepassa le barriere della religione per rivolgersi all’umanità tutta. E al termine della visione, non è forse azzardato scorgere nel “figlio” del mite sonderkommando la metafora di un’“eredità” collettiva, probabilmente quell’unica eredità possibile: la nostra futura memoria storica. Perché in fondo “Il figlio di Saul” anticipa, dentro il tempo dei suoi accadimenti, quel sentimento di devozione autentica ed incondizionata per i morti che forse nessun popolo ha compreso veramente ma che conosce solo un modo per essere onorato: amando i vivi.
Andrea Lupo