Esistono due modi per approcciarsi a un film sofisticato, algido e suadente come “Carol”.
Il primo è quello suggerito dalle etichette e istigato dai tabloid: una raffinata variazione sul tema delle relazioni impossibili e delle passioni soffocate da convenzioni sociali e sessuali, ascrivibile senza indugio alle calde convenzioni del melò. L’altro, invece, scaturisce da visioni (e sensazioni) più critiche e personali, inteso com’è a lasciarsi guidare, attraverso le linee morbide di una narrazione pacata e mai ridondante, fin verso il cuore dell’operazione stessa. Il primo approccio, con ogni probabilità, deluderà tanti spettatori in cerca di scossoni emotivi e intrecci elegantemente soap. Il secondo -soggettivo- nasce invece da impressioni che si sedimentano lentamente durante la visione e che si raccordano definitivamente tra loro attraverso l’ultima, intensissima sequenza finale. Perché “Carol” non è, realisticamente, quel melò “classico” promesso inizialmente, ma un’indagine quasi chirurgica sui sentimenti, un’esplorazione sull’essere umano (e sulla società) condotta attraverso due creature archetipiche sì ma soprattutto in cerca di una propria identità. Fermarsi superficialmente alla “storia” o ridurre la medesima entro gli angusti confini di un “amore lesbico” equivale a fraintendere il film nello stesso modo in cui all’epoca (il 1953) venne mal interpretato il romanzo di Patricia Highsmith da cui è tratto (“Il prezzo del sale”, sbrigativamente relegato nel filone della cosiddetta narrativa “lesbian pulp”). La mite Therese e la seducente Carol, non rappresentano l’omologo anni ’50 di una coppia omosessuale tormentata (nonostante il contesto socio-politico intorno rigurgiti sulla loro storia un’ipocrisia non distante dall’oggi), ma due semplici (e nobili al tempo stesso) figure grezze che vanno modellandosi lentamente dinanzi ai nostri occhi. Dentro il loro tempo e ugualmente fuori da ogni tempo.
Da un lato c’è Therese, bambola “proletaria” viva ma dormiente, che attende nel reparto giocattoli una ragazzina disposta a credere in lei. Dall’altro c’è Carol, la bambina adulta viziata anzitempo da una società benpensante: si staglia sullo sfondo, impellicciata e curatissima, come una struttura perfetta disegnata, però, su una tela priva di colore. Non sono ancora pronte a stare insieme ma lo fanno comunque. La prima cedendo giovanilmente a questa nuova iniziazione, forse infatuata o magari inconsapevole della vita (“Non so nemmeno cosa ordinare per pranzo” ammette candidamente al suo primo incontro); la seconda avida di un’innocenza che probabilmente le è stata negata, bramosamente in cerca di una vita nuova che rimuova le scorie di quella precedente (“Angelo mio, piovuto dallo spazio” ripete più volte a Therese in uno slancio di romanticismo d’altri tempi). Due mondi che si incontrano cercando di comprendersi fra loro prima che l’uno finisca per “comprendere” e annullare l’altro. Anime che si definiscono reciprocamente non soltanto attraverso gli sguardi (penetranti e desiderosi quelli di Carol, candidi e remissivi quelli di Therese) e la delicatezza dei gesti, ma anche attraverso gli ambienti (grandi magazzini e grigi solai, cafè in autostrada e caldi interni domestici, camere d’albergo e squallidi motel sono le “gabbie” che le contengono di volta in volta). Creature che rifiutano ostinatamente convenzioni familiari prestabilite e che infine trovano (e ritrovano) se stesse fra le pieghe di aspirazioni prima negate (Therese “matura” mettendo finalmente a fuoco attraverso la fotografia quel mondo che immortalava senza mai “osservare”) o nella sofferta auto-amputazione del proprio ruolo sociale (quello di madre per Carol).
Un viaggio, quello da loro intrapreso, dai toni plumbei e rarefatti, dove la ricerca di “sè” coincide (e forse finisce) col ritrovamento dell'”altro” e in cui l’amplesso più volte rinviato non contempla solo la gioia ma anche l’urgenza e il sotterfugio, perché la società che si agita intorno a Carol e Therese è tesa più a spiare e a incalzare piuttosto che a comprendere (la vicenda dell’intercettazione “rubata” nel motel richiama in un sol colpo la diffusa paranoia maccartista dell’epoca). E se l’obiettivo sembra inquadrare soltanto loro, è in realtà un intero paese a venir messo sommessamente a fuoco da questo geometrico affresco, perchè in filigrana sfilano puntuali tutte le nevrosi e le contraddizioni sociali ed economiche dell’America di ieri e oggi. In “Carol” queste due tendenze, esistenziale da un lato e politica sullo sfondo, innervano costantemente la struttura del racconto, pietrificando (volutamente) le classiche estrinsecazioni del melò e contaminando del medesimo gelo razionale tanto gli sguardi quanto le azioni delle due (magnifiche) protagoniste immerse, per contrasto, in una fotografia che esala autenticità e un ovattato calore. Cronaca di un amore dunque, fra Carol e Therese, ma anche per lo stato dell’arte cinematografica, passione che il regista Todd Haynes (“Safe”, “Velvet Goldmine”, “Lontanto dal paradiso”) distilla attraverso una narrazione mirabile, fatta di tecnicismi d’altri tempi (il film è girato in uno sgranato e meraviglioso 16 mm.), composizione perfetta delle inquadrature e rimandi cinefili di ogni genere (evidenti nella scelta di modellare le protagoniste su icone cinematografiche presenti già nell’immaginario come la Dietrich e la Hepburn). La forma stavolta è contenuto e in “Carol” ogni dettaglio formale rimanda a un “implicito” non raccontato.
Autopsia di un amore non ancora nato (e di un Sogno Americano irrealizzato) nella maniera in cui “Velvet Goldmine” e “Lontano dal paradiso” erano funebri elegie per due epoche diverse (i decadenti anni ’80 nel primo- col glam anni ’70 a contrastare- e l’ipocrita e multi cromatica società anni ’50 nel secondo), “Carol” riluce di una compostezza emotiva rara nel cinema attuale e riesce a respirare dentro i suoi elaboratissimi e soffocanti chiaroscuri, così indispensabili per restituirci al termine del percorso due figure orgogliose di donne “estratte” dall’informe materia iniziale. Sarà per questo che quel movimento di macchina risolutivo e finale, un momento che chiude il cerchio della narrazione restituendo senso definitivo alla storia, risulta così inaspettatamente commovente. In quella sequenza aggraziata, semplice e potentissima brucia il calore di un sentimento fin lì trattenuto e che invade completamente lo schermo giungendo fino a noi; è l’amore che scioglie due identità finalmente divenute “anime”. Ecco, il vero melò in “Carol” inizia proprio da qui, consegnandosi agli spettatori sulla soglia del buio che precede per un attimo i titoli di coda.
Sublime.
Andrea Lupo