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“Whiplash”, la recensione del film

maxresdefaultTre premi Oscar inattesi e meritati. Un “colpo di frusta” di nome e di fatto quello assestato dall’esordiente regista Damien Chazelle con il piccolo ma sorprendente “Whiplash” nel corso della cerimonia di questi ultimi 87°Academy Awards. Sorprendente non solo perché un film obiettivamente intenso ed appassionante, ma anche perché la pellicola passerà alla storia, suo malgrado, come una fra le più sottostimate dal pubblico almeno sotto il profilo degli incassi (siamo a 13 milioni di dollari worldwide nel momento in cui si scrive). Perché se è vero che “Birdman” e “Boyhood” (dei recenti Oscar rispettivamente l’annunciato trionfatore e il “dimenticato” eccellente) sono titoli tranquillamente ascrivibili al cosiddetto cinema indipendente e, come tali, capaci di attirare un pubblico più dotto e selettivo, è altrettanto innegabile che “Whiplash” possedeva invece le carte giuste per stregare un pubblico più trasversale e quasi “mainstream”. Un miracolo che purtroppo, complice anche la miope distribuzione, non si è verificato. Perché “Whiplash” non è affatto cinema indipendente se non sotto il profilo della produzione (3 milioni di dollari il risibile costo) e dell’assenza di nomi altisonanti nel cast, quanto un prodotto “classico” nell’accezione più pura e diretta del termine. Un film fatto di attori veri (gli straordinari J.K. Simmons e Miles Teller), di messe in scene lineari e perfette, di duelli fisici e verbali palpabili e sequenze affilate come coltelli. Un cinema insomma fatto degli ingredienti stessi della settima arte, che non vola alto come un “birdman” alla ricerca di metafore e sperimentazioni visive, ma preferisce planare più quietamente attraverso altri cieli, per atterrare infine sui sentieri già battuti dell’emozione. Poche parole per descrivere un plot semplice come un messaggio su carta da cioccolatini: un insegnante di musica forgia il carattere del suo allievo a furia di ceffoni, soverchierie e prove di forza. Una scuola di musica e di vita fatta di caratteri a confronto, di un ordinario che lotta con la mediocrità per far emergere i talenti, e di un genio che infine trionfa a dispetto del sangue e delle lacrime versate e di rinunce dolorose che (forse) erano necessarie. “Whiplash” travolge grazie alla potenza della sua semplicità e all’assenza di metafore che avrebbero potuto soltanto appesantire quel carico di elettricità di cui è naturale portatore. E se una metafora per questa parabola ansiogena su vita, arte e successo, si vuole a tutti i costi trovarla allora, con ogni probabilità, è alla musica che bisognerà rivolgersi. Quel jazz trascinante, fatto di ritmi che scuotono l’anima e sfondano le batterie, forgiato da mani sanguinanti e cervelli allo stremo, è davvero la materializzazione di un percorso esistenziale. Che procede dai binari di uno spartito eseguito diligentemente ma senza guizzi per poi deragliare verso le zone impervie e sconosciute dell’imprevedibilità e dell’improvvisazione, terre d’elezione del genio. Che non è necessariamente (o soltanto) una qualità innata dell’essere umano, quanto una condizione straordinaria determinata dalle circostanze e servita dall’abnegazione di chi è disposto ad ascoltare una voce e abbassare, nel mentre, tutte le altre. “Non esistono in qualsiasi lingua del mondo, due parole più pericolose di “bel lavoro”!” dice l’irreprensibile insegnante- marine J.K.Simmons per esprimere la sua estrema filosofia didattica durante questa sorta di “Full Metal Jazz”. Non possiamo che dargli ragione. Dopotutto è grazie a un simile assunto se alla fine del film anche noi abbiamo potuto partecipare, seppur nell’arco di quel magico e magnifico assolo, al miracolo della perfezione. E la musica in un film non è mai stata tanto vicina allo stomaco oltre che alle orecchie.

Uno dei rari film di stagione che sarebbe davvero un delitto perdere.“Sentire” per credere…

Andrea Lupo

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