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Demolition- la recensione

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Demolizione come eliminazione degli orpelli di una (vecchia) vita sconvolta dalla tragedia. Smontare (prima) per comprendere meccanismi psicologici fin lì ignoti e distruggere (dopo) per ricomporsi nuovamente come essere umano. Sono queste le tappe del liberatorio percorso che il regista di “C.R.A.Z.Y”. e “Dallas Buyers Club” fa compiere al suo personaggio Davis (un sempre bravo Jake Gillenhal), giovane manager fresco di vedovanza per un tragico incidente, che affronta l’elaborazione del lutto tuffandosi prima in un inusuale rapporto epistolare con la ditta di macchinette che gli aveva “fregato” gli snack in ospedale, e lasciandosi prendere poi dall’ansia di smontare qualunque cosa che abbia un meccanismo (esplicito transfert psicologico di un rimprovero rivoltogli dalla moglie poco prima di morire). Ci penserà la scoperta di una diversa umanità (quella che ancora si commuove con le missive scritte a mano) a rivelare al protagonista la verità nascosta sui sentimenti propri e altrui e soprattutto a suggerirgli la timida possibilità di un’alternativa. Sulla scia del precedente “Wild”, il regista Jean Marc-Vallée affronta un’altra storia di “purificazione” umana mediata da dinamiche solipsistiche e condotta attraverso l’abbandono forzato di un sistema precostituito (fatto di idee e abitudini) e la potenza salvifica del viaggio. Ma se nel caso della ex-eroinomane Reese Whiterspoon quest’ultimo assumeva l’evidenza fisica di un’espiazione conquistata a fatica attraverso la privazione, l’esplorazione e l’abbandono all’ignoto e al selvaggio, qui invece il cammino muta subito in un metaforico processo di devastazione psicologica e materiale, viaggio consumato all’interno della società degli agi, del businnes e del benessere moderni. Jake Gillenhal presta istrionismo e fisicità adeguate a sottoscrivere un simile e atipico percorso di rinascita, anche se la spontaneità del suo ritorno alla vita appare un po’ troppo blindata dalla sistematicità della metafora sulla demolizione su cui si regge l’impalcatura complessiva (e che sacrifica l’approfondimento del personaggio di Naomi Watts e, in parte, del figlio ribelle). Ad ogni buon conto quella del film resta un’elaborazione del lutto atipica, sincera e non priva di momenti toccanti (con l’asticella dell’emozione a sollevarsi ogni qualvolta appare in scena Chris Cooper). Una maggiore “ruvidezza” alla Gus Van Sant e meno didascalie l’avrebbero reso probabilmente un film più memorabile. Il viaggio tuttavia, anche con le sue imperfezioni, è di quelli che vale la pena condurre fino alla fine, lasciandosi straniare prima dalle intemperanze di un protagonista cinematograficamente incomodo e avvolgere poi dalle implosioni credibili di dolore e dalla leggerezza dei suoi slanci autentici. Proprio come l’impulso infantile di correre e correre ancora che chiude il film giusto per aprirne un altro.

Andrea Lupo

 

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