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“The Neon Demon” – la recensione

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Che cos’è un demone? Per la cultura occidentale e cristiana è un essere negativo, la nemesi del bene, un demonio malvagio e bugiardo che irretisce l’uomo per farne il suo succube. Per i greci invece il “daimon” era uno spirito a metà fra l’umano e il divino, l’essenza dell’anima o, per dirla come Platone, la nostra vocazione più profonda, quella che va perseguita e che ci rende, se conquistata, più puri e autentici. Se volessimo rintracciare uno spazio – non soltanto cinematografico ma anche etimologico- in cui collocare criticamente l’ultima opera di Nicolas Winding Refn, forse è proprio nei significati di quel “demon” (racchiuso in un titolo dall’assonanza cool) che bisognerebbe cercarlo. “The neon demon” contiene infatti le due vocazioni principali del cinema di Refn , quella classica e narrativa che aderisce ai generi -in modi, s’intende, assai meno convenzionali rispetto alla media- e quella personale (o autoriale se si preferisce) che costantemente rischia, sperimenta ed inventa, rifocillando antiche ossessioni cinematografiche lungo la strada percorsa e rigurgitandone di nuove sul sentiero avanti. Da un lato v’è quindi il demone, entità suadente e malvagia protagonista di una moderna fiaba horror; dall’altro c’è il daimon ispiratore di un regista che, almeno da “Valhalla Rising” fino a “Solo Dio perdona”, continua a mettersi in discussione attraverso i generi e le fonti di ispirazione eccellenti (Jodorowsky su tutti) . Che cos’è allora “The Neon Demon”? E’, innanzitutto, l’horror sulla moda e sul mito della bellezza che nessuno si aspetta. La favola nera di una “Sleeping Beauty” ambientata in una foresta rilucente di strass e vernici dorate, dove i neon hanno preso il posto dei rovi e i principi azzurri non ridestano più da alcun sonno. E’ la favola di Jesse, bellezza abbagliante e “naturale” (pericolosa dunque) che entra in punta di piedi nel glitterato ed anoressico mondo della moda di Los Angeles perturbandone col suo candore virginale quel precario equilibrio formale tenuto su da un tacco 12 e dosi imprecisate di antipatia e rivalità.

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Come in ogni favola che si rispetti ci sono le streghe, qui creature voraci, invidiose e (talvolta) innamorate che cannibalizzano il corpo ma soprattutto il concetto stesso di bellezza, e poi ci sono i sabba, iniziazioni notturne dissimulate dietro sedute di arti performative che “anticipano”, tra legacci e camicie di forza, la possessione che avverrà sotto altri riflettori. C’è infine un demone- il neon demon del titolo- che squarcia i sogni di Jesse trovando la sua epifania in una triplice visione geometrica che forse è il simbolo di una fertilità rovesciata (la bellezza fine a se stessa che nulla riesce a generare) o magari è solo un vessillo delle streghe-mannequin (anch’esse tre, numero magico per eccellenza). E’ il demone della tradizione occidentale -quello malvagio  e menzognero che seduce e possiede- che traduce il film verso i territori di un horror metaforico (ma non metafisico), incurante delle accuse di truce provocazione gore-chic o di mero sensazionalismo estetico rivolte dai più (stolidi) al suo autore. Refn esplicita, attraverso un racconto di formazione al negativo (ascesa-caduta ma non resurrezione della sua protagonista) la sua personale idea di fiaba pop, mesmerica ed elettrica, una parabola in cui l’innocenza e la purezza di un sole naturale (Jesse) si incancreniscono dinanzi alla luce fredda e sintetica di un astro artificiale (il riflettore).  Ma la superbia che guasta la bellezza invece di essere, come accade nelle favole, un atto moralmente punibile diviene piuttosto nuovo cardine di un’ insolita variante sul ciclo “merceologico” ( la bellezza viene divorata e assimilata prima, espulsa poi ed infine nuovamente divorata), ideale allegoria per le nevrosi della moderna società dell’immagine (e non del solo mondo della moda). Che il film sia stato fischiato nel corso di quella kermesse-vetrina (Cannes) in cui si celebra proprio il rito del corpo cinematografico trasfigurato in corpo mediatico, pare suonare come il più ironico dei contrappassi.

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Specchi e superfici riflettenti in “Neon Demon” non sono più luoghi di contemplazione narcisistica ma portali che conducono a una nuova dimensione della realtà, entità che deformano quest’ultima a proprio uso e consumo e che la “stuprano” nel momento stesso in cui mirano a possederla (per riprodurla). Così il riflesso dall’altra parte (Jesse già figlia di un “riflesso” lunare cioè dei suoi sogni) diventa verità, mentre il corpo fuori rimane un oltraggio a questa, proprio perchè segnato dal tempo e dalle imperfezioni (“nessuno si piace così com’è” declama impassibile quella bambola- modella dopo aver sciorinato l’elenco degli interventi di chirurgia). Capovolgimento (a)morale di senso che fa di un cadavere sul tavolo di un obitorio non tanto un corpo desiderabile ma la carcassa sulla quale proiettare il desiderio di quel riflesso (in una delle sequenze più atroci e disperate del film). Tutto è già morto in “Neon Demon”, dalle modelle rifatte a quelle ormai prive di luce, dai sogni di carriera al desiderio sessuale, passando, in ultimo, per i sentimenti, una volta tanto assenti giustificati. Jesse, la protagonista, è il fascio di luce naturale e innocente che si posiziona per un attimo sopra quel mondo in lenta e inesorabile decomposizione poco prima di esserne risucchiato vampirescamente. Perchè celebrare l’innocenza significa anche deprivarla della sua essenza. Non si sfugge al carnevale dell’amoralità, soprattutto in quello che resta, fuori da ogni dubbio, un autentico horror dell’anima. Se davvero si cerca una moralità al termine del racconto, magari è quella racchiusa nelle immagini realistiche (e non più artificiali) di quel tramonto alla fine di tutto.

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Potremmo accontentarci solo di questo per uscire soddisfatti dalla visione dell’ultimo NWR (ormai un brand che campeggia orgogliosamente sotto i titoli dei propri film) ma bisogna dire prima dell’altro demone, quello che preme con forza oltre i margini di significato del film. E’ il daimon, l’essenza pura del cineasta, la vocazione cinematografica tout-court di chi, come Nicolas Winding Refn, persegue ostinatamente un’idea (estetica e sostanziale) allo scopo di trovare la propria autenticità d’autore. Refn non impagina elegantemente (come i critici superficiali di Cannes hanno sostenuto) cataloghi très chic fatti di bellezza e perversione ma “vomita” (non solo letteralmente) quanto già metabolizzato cinematograficamente altrove in qualità di spettatore, e lo fa non solo attraverso la salda e nitidissima scrittura cinematografica, ma mediante una tecnica che diviene essa stessa portatrice di senso.

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Il demone (inteso quale vocazione autentica) di Refn sta allora nel suo anacronistico (e assai più coraggioso) affidarsi ai codici linguistici di un cinema che nessuno realizza più. L’utilizzo degli spazi e dei campi lunghi (vedere l’inquadratura della morgue per credere), la coreografia delle luci e dei suoni (e delle note importantissime e stordenti di Cliff Martinez) mirano infatti a costruire una danza estetico-sensoriale che rigurgita suggestioni provenienti dai migliori anni ’80 ed omaggi dichiarati al grande cinema dei maestri (citare Carpenter e Argento stavolta non è per nulla fuori luogo). Una danza e un movimento che incantano e ipnotizzano fin dai vellutati e bellissimi (lynchiani?) titoli di testa. E’ qui che Refn stabilisce le coordinate percettive del suo artificio (perché “The Neon Demon” è uno splendido ed anti-realistico manifesto dell’arte), palesando una totale capacità di controllo sugli elementi cinematografici a sua disposizione (il climax è costruito secondo le regole ferree del mestiere) e trascinando chi è già predisposto a questa psichedelica vertigo dentro la medesima trance della protagonista. Un dolce, psicotico (e ipnotico) naufragare in acque torbide dalle quali non si vorrebbe più riemergere. Perchè, va detto, sia esso mosso da un demone malvagio o ispirato da un daimon benevolo, “The Neon demon” rimane esperienza cinematografica totale, dove la visione (quell’occhio che metaforicamente e fisicamente ritorna) non è semplicemente un artificio da contemplare ma una realtà materica da trangugiare con avidità. E da assimilare naturalmente. Qualcuno potrebbe dirvi che è solo fuffa in salsa “Vogue” o magari un peccato di superbia siglato con le proprie iniziali da un presuntuoso regista danese. Ma non è forse l’arroganza di pochi visionari ad alimentare la sostanza dei sogni?

Andrea Lupo

 

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