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“Mia madre” – la recensione

miamadreNessun regista italiano come Nanni Moretti ha saputo fare dell’arte cinematografica una sorta di volano indispensabile per sviluppare sullo schermo questioni essenzialmente biografiche. Il cinema per Giovanni Moretti resta sempre costruzione e narrazione ma è anche, inevitabilmente, introspezione. E non parliamo semplicemente dell’approfondimento psicologico di personaggi che vivono al di là della cortina cinematografica in una dimensione affettuosamente sopra le righe, ma di un vero e proprio percorso di autoanalisi intrapreso dall’autore pellicola dopo pellicola. Un viaggio sospeso fra l’esibizione di vezzi e passioni personali, memorie e macerie di un’ideologia che forse non esiste più e il diario ( un “caro” diario s’intende) fatto di autentico vissuto e proiezioni biografiche e politiche. Un cinema che procede per tappe preziose e niente affatto preordinate ma piuttosto suggerite dagli eventi intorno a sé e dentro di sé, fra profezie laiche (“Habemus Papam”), apocalissi politiche (“Il caimano”) e altri frammenti di verità e grottesco incastonati perfettamente nell’immagine (im)mobile del suo autore. Lui, folletto autarchico che non ha paura di apparire supponente così come di affondare le dita in un vasetto di Nutella, resta sempre il più sincero fra i cineasti italiani e “Mia madre”, simulazione cinematografica della vita, ne è la migliore conferma. Ancora una volta trattasi di un diario, non disilluso come lo era “Aprile” e meno rabbioso de “La stanza del figlio”, ma disarmante nella sua sincerità e stilisticamente permeato di un onirismo quasi impalpabile e perfettamente funzionale tanto al viaggio nella memoria dei protagonisti quanto al “crepuscolo della vita” che si intende rappresentare. “Mia madre” non è soltanto la cronaca intima e affettuosa di un sofferto commiato ad una figura fondamentale negli affetti ma è anche l’istantanea di un bilancio personale, quello dei due fratelli alle prese con un evento che fa affiorare in loro dubbi e false illusioni, corazze indossate per forza o per necessità e dalle quali liberarsi forse non è più facile che dire addio. Un doloroso autobiografismo permea la vicenda narrata nel film (la vera madre di Nanni Moretti, anch’essa insegnante di latino e greco come la Ada del film, è scomparsa proprio durante le riprese di “Habemus Papam”) e il regista, forse per mantenere il distacco necessario a trattare con lucidità l’intera materia, affida interamente se stesso alla protagonista Margherita Buy, “morettiana” fin nella scrittura. E’ lei la regista dubbiosa che forse non crede più al ruolo (“Il regista è uno stronzo e non ha sempre ragione!”) e ad un mestiere in cui si riversa, quale metafora naturale, niente altro che la sua (in)capacità di dominare le esistenze altrui. Una seduta di autocoscienza quasi lancinante e “alleggerita” dagli squarci bizzarri di vita sul set (quasi a voler ricordare che il miglior dramma resiste pur sempre all’interno della commedia popolare italiana) ma soprattutto un canto a due voci, dove il personaggio della Buy rappresenta il diapason di emozioni primarie e dirette, mentre quello di Moretti costituisce l’impalcatura silenziosa sulle quali le medesime note dolenti finiscono per aderire e quasi “implodere”. Lei costantemente illuminata dall’obiettivo, lui accanto e pudicamente fuori fuoco, proprio come nel semplice e profondissimo poster del film. Intorno a loro, a “dispetto” del tema luttuoso, la vita continua a gridare la sua ragion d’essere. Si tratti di quella vissuta all’interno di un set dominato da una star capricciosa ma sincera (John Turturro) o di quella vita che circonda come un’aura una granitica figura materna sull’orlo dell’abisso ma niente affatto doma (una straziante Giulia Lazzarini). E tra eredità culturali (il latino quale simbolo di fecondità intellettuale) e generazionali (la nonna come figura confidenziale), il lascito più bello dell’intero film e della sua protagonista resterà quello puramente esistenziale:
Margherita: “A cosa pensi mamma?”
Ada: “A domani”
E il crepuscolo diviene improvvisamente un’alba.

Andrea Lupo

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