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Recensione “Transformers 4- L’era dell’estinzione”

imageMisura. Una di quelle (belle) parole che occorrerebbe ricordare a Michael Bay, regista “teorico” del genere action che pare averla smarrita almeno un paio di pellicole fa. Intendiamoci bene: chi scrive, pur non amando particolarmente lo stile enfatico e visivamente “reazionario” dei suoi film, gli riconosce comunque grandi abilità sul piano tecnico (girare inseguimenti adrenalici e orchestrare esplosioni non è da tutti), ironia e perfino una qualche ambizione drammaturgica (The Island, The Rock). Bay insomma è un perfetto “derivato” dell’industria cinematografica a stelle e strisce, un cineasta capace di sfruttare il meglio delle disponibilità produttive (perché da Bad Boys in poi non si può dire che abbia usufruito di budget lesinati o attori poco noti) mettendole al servizio dell’entertainment hollywoodiano più remunerativo. Celebrazione pura del grado zero dell’impegno e della filosofia del pop-corn insomma. Il problema del regista, annunciato da "spie" presenti già nel secondo “Transformers” e divenuto palese in questo quarto capitolo, resta, per l’appunto, la cronica assenza di misura. Consapevoli che la taglia "XXL" sia quella a lui più congeniale sotto il profilo del minutaggio (nella sua filmografia non si trovano titoli inferiori alle 2 ore e 20), da “spettatori medi” registriamo in Bay l’assenza di una (salutare) capacità di (auto)regolarsi, quella che, per intenderci, un tempo toccava ai produttori e che oggi invece sembra essere totalmente appannaggio dei registi (certo, anche Christopher Nolan sfiora spesso le tre ore ma al netto di sceneggiature piene e vibranti). Così, se paragoniamo l’equilibrio che dominava il primo capitolo del franchise dei robottoni (dove la “mano” felice dello Spielberg produttore si sentiva) con l’instabilità anche narrativa di questo quarto, ci rendiamo perfettamente conto di quanto si sia smarrito e cosa invece sia stato incrementato nella saga. Nel primo film c’erano la bravura “nerd” di Shia La Beuf e l’azione mozzafiato, conditi al meglio dall’ironia dei comprimari (genitori, politici complottisti) e dalla “gnocchezza” senza pari di Megan Fox. E, naturalmente, c'erano i robottoni, ancora capaci di comunicare un infantile e salutare sense of wonder. Elementi tutti vincenti ma puntualmente portati nei successivi capitoli a un fastidioso parossismo dal quale, evidentemente, il regista voleva affrancarsi. Ecco spiegato dunque il ricorso, in questo quarto capitolo, ad alcuni impacciati surrogati (spacciati però per seriose "novità") che non migliorano di molto la situazione precedente. Si va dal prudente capofamiglia e inventore Mark Whalberg alla scapestrata figlia “bona”, la cui presenza è giustificabile giusto per qualche siparietto di gelosia col padre e per la generosa esibizione degli shorts (anche se, rispetto a Megan Fox, non è altro che la versione ipocrita di un sogno erotico-adolescenziale “tarpato”). Non mancano strambe figure di industrialotti collusi e pentiti (Stanley Tucci poco sfruttato) e agenti segreti cattivi oltre ogni giustificabile ragione. Ma se sulla sceneggiatura siamo stati sempre disposti a chiudere più di un occhio, è proprio con gli attesi robottoni che registriamo le delusioni maggiori. Decepticon e Autobot immischiati ancor più che in passato in contorti antagonismi umano-alieni di cui è facile disinteressarsi o impegnati in altrettanto audaci contorsioni fisiche (ai limiti della credibilità “metallica”) incapaci di suscitare il minimo stupore. Un’aggressione "sensoriale" in piena regola che tocca quasi tutte le umane funzioni fondamentali, neanche il regista vedesse noi spettatori come periferiche del suo personale impianto 5.1. Michael Bay, fermamente convinto che divertimento o coinvolgimento siano concetti direttamente proporzionali alle tonnellate di pixel profuse in ogni sequenza, in questo quarto "Transformers" (o meglio "Frastorners") radicalizza ancor di più la sua visione estetica dei robot dimenticandosi –e questo è il peccato più grave- che quei giocattoli (perché tali restano) acquistavano vita innanzitutto dentro la dimensione psicologica infantile e non per mezzo (soltanto) di quella esteriore. Certa critica nel cinema recente di Bay ritrova già un’ideologia cinefila (?) tutta da analizzare. Gli adolescenti moderni invece distrattamente si accorgeranno della differenza fra schermo, videogame e tablet. Tutti gli altri (come il sottoscritto) si limiteranno a sbadigliare ogni tanto dinanzi al frastuono, ben intenzionati magari a non raccogliere l’invito per l'annunciato quinto capitolo. Per questi ultimi raccomandiamo di lavar via i “pixel” in eccesso tramite la visione di un qualsiasi Spielberg o Zemeckis anni ’80 o magari, per non fare troppo gli schizzinosi “vintage”, del sottovalutato “Super 8”. Perché, se non il cervello, almeno il cuore vuole ancora la sua parte.

Andrea Lupo

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