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Recensione “Storia di una ladra di libri”

storia di una ladra di libriIl cinema non ha mai chiuso definitivamente i conti con la Shoah. Lo sa bene l’industria hollywoodiana che ancora oggi continua a realizzare produzioni incentrate sullo sterminio degli ebrei o sugli aspetti più crudeli del regime del III Reich. Quest’anno ben due film hanno scelto di puntare i riflettori su quella pagina nera di storia e di concentrarsi, in modo particolare, sull’oscurantismo culturale che ha accompagnato quel buio sistema. Lo hanno fatto in modo diverso e con esiti magari altalenanti, ma stando sempre attenti a trasmettere il messaggio con la giusta sincerità e a veicolarlo attraverso una (irrinunciabile) buona dose di spettacolarità. Da una parte c’è stato “Monuments Men” di George Clooney (già uscito nelle sale) che ha avuto più il pregio di far conoscere la magnifica storia della squadra che”liberò” le opere d’arte trafugate dai nazisti, piuttosto che quello di rendere una simile vicenda cinematograficamente accattivante (il film risulta squilibrato nel gestire azione, dramma e commedia). Dall’altro invece sta quest’ultimo “Storia di una ladra di libri”, tratto dal best-seller “La bambina che salvava i libri”, che si impone invece come prodotto più facile e mainstream (ottima confezione, emozioni calcolate al millimetro, retorica più o meno tenuta a bada), capace di far breccia in maniera più immediata sul grande pubblico. Un film che, a ben guardare,  sembra nato quasi da una costola “spielberghiana”, sia per il modo in cui è strutturato (andamento classico, precisione filologica ed enfasi collocata nei punti giusti), sia perché sceglie di affidarsi a un punto di vista prevalentemente “infantile”, prospettiva da sempre privilegiata nel cinema del maestro hollywoodiano. A siglare questa “sorellanza” con il cinema del Re Mida di Hollywood contribuisce inoltre la riuscita partitura musicale di John Williams (già autore del bellissimo score di Schindler’s List) che con  tocchi delicati ed intimisti rende più prezioso l’andamento della vicenda della piccola analfabeta Liesel e della sua passione per i libri e la cultura, anche questi “vittime” del bieco oscurantismo nazista. Tuttavia il regista non è Spielberg e alla lunga, mentre la storia si svolge, questo si avverte. Il film infatti, pur portando dignitosamente a casa il risultato (aiutato in ciò dall’ottimo e azzeccato cast, sul quale spicca la rivelazione Sophie Nèlisse), non esce dai binari di una narrazione scandita da ritmi più pacati e “televisivi” (ma nell’accezione “alta” della produzione americana s’intende, non in quella scadente tutta italiana) e non rischia molto in termini cinematografici, a parte la scelta di affidarsi insolitamente (come del resto avviene già nel libro) alla voce fuoricampo di una triste mietitrice “benevolmente” cinica. E se la tragedia culturale resta sullo sfondo (a parte una cruciale sequenza in piazza che richiama lo storico rogo del 1933 a Bebelplatz con quei 25.000 libri dati vergognosamente alle fiamme tra odio e cecità) quella personale della protagonista finisce invece, come prevedibile, per prendere il sopravvento su tutto, limitando le possibilità di un film che avrebbe potuto ambire a diventare un piccolo-grande manifesto contro l’arretratezza culturale del regime (perché se l’unico libro salvato dal rogo è proprio “L’uomo invisibile” di H.G. Wells qualcosa vorrà pur dire, no?). Restano dunque, a fine visione, quel senso di soddisfazione tipico delle piccole storie che toccano il cuore e rinnovano la memoria storica, ma anche il rimpianto per quella metafora  (o al più quello squarcio potente di cinema) che il film sarebbe potuto diventare. Per quel film, insomma, che sarebbe riuscito a cavar fuori il “vero” Spielberg…  

 

 

Andrea Lupo

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