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Recensione “Allacciate le cinture” di Ozpetek

imageFerzan Ozpetek, nel corso di una quasi ventennale carriera, ha ormai consolidato il suo status di interprete del miglior cinema intimista italiano. Nelle sue storie si intrecciano temi costantemente in bilico fra il privato personale (l’omosessualità problematizzata nei differenti contesti) e la sua ricaduta nel tessuto sociale (l’accettazione e l’assorbimento della diversità all’interno delle istituzioni). A questi ultimi poi si aggiunge, quale leit-motiv ricorrente, la rielaborazione -in chiave del tutto anticonvenzionale- del concetto di famiglia (dal regista inteso come gruppo di amici che accoglie ognuno nella sua differenza). Il tutto filtrato da uno sguardo “esotico” capace sempre di conferire eleganza e sofisticatezza ai diversi quadri d’insieme portati in scena. Opere come “Le fate ignoranti”, “La finestra di Fronte” e “Mine vaganti” sarebbero infatti impensabili nelle mani di certi commedianti italiani troppo inclini al macchiettismo d’accatto (quello che tanto gratifica il pubblico di massa per intenderci). Il cinema di Ozpetek invece non solo ha contribuito a sdoganare la rappresentazione della diversità da consolidati stereotipi comportamentali, ma ha anche introdotto (ed educato) il pubblico nostrano ad un cinema sentimentale coraggiosamente melodrammatico e privo di stucchevolezze. Inoltre, cosa non da poco, ha avuto il coraggio di affrontare il debito con la “memoria”, sia essa storica (come accade in Magnifica presenza o La finestra di fronte) che personale (Mine vaganti, Cuore Sacro). Con la sua ultima fatica il regista di origini turche realizza oggi una sorta di compendio di tutto il suo cinema, un percorso in cui è facile rintracciare tanto gli echi leggeri di Mine vaganti (gli amici e la goliardia che stemperano dramma e malinconia), quanto alcune dolorose elaborazioni su morte e malattia (come già in Saturno Contro). Il tema centrale di “Allacciate le cinture” resta tuttavia l’amore, argomento che qui il regista affronta di petto, rappresentandolo nella sua componente più fisica, e irrazionale. Kasia Smutniak (bravissima) e l’ex tronista Francesco Arca (decisamente in parte, nonostante i pregiudizi critici) si muovono benissimo in questo Salento prima infuocato dalla passione e poi gelato dalla malattia. A declamare intorno a loro sta il classico coro greco “ozpetekiano” (se così si può dire) composto da amici, madri e zie che forse non sono tali. La storia, per quanto uguale a mille altre, è trattata invece con l’inconfondibile maestria narrativa e la sensibilità che contraddistingue i migliori lavori del regista. Si ride di gusto in molte occasioni, ci si emoziona in parecchi momenti e alla fine si resta anche sospesi, insieme agli stessi protagonisti, su quell’abisso chiamato ignoto che la vita riserva un po’ a tutti. Col pudore dei maestri Ozpetek non sta lì a raccontarci favole rassicuranti sul destino di una donna, ma vuol metterci di fronte alle difficoltà che obbligano tutti, prima o poi, ad “allacciare le cinture” e fortificare sentimenti che sembravano sepolti. Ecco perché questa sua ultima storia non è soltanto una “storia d’amore”.

Andrea Lupo

 

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