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L’arena dei paradossi e delle distorsioni. Intervista alla band Martiri di Falloppio

Che il sottosuolo magmatico etneo da qualche tempo sia in pieno fermento musicale è una certezza. A discapito di quanti siano rimasti fermi ai nostalgici ricordi della Catania Seattle d’Italia o di quanti distrattamente non riescono a cogliere il fascino della novità, questa prorompente realtà musicale chiede voce e spazio. Tra le numerose e variegate frecce affilate di questa faretra sonora c’è anche quella dei giovani Martiri di Falloppio. Una freccia un po’ particolare le cui traiettorie non sono facilmente prevedibili ed il rischio di esserne trafitti potrebbe causare effetti di delirio e di contagiosa fascinazione per la potenza e la libertà espressiva che questa band porta con sé sin dagli esordi. Il trio isolano picchia duro sulla scorza musicale siciliana dal 2009, riuscendo da allora ad ottenere sempre più consensi grazie ad importanti riconoscimenti in svariati festival e contest anche di respiro nazionale, come per il loro primo videoclip realizzato in stop motion sul brano “Ortopedico“, presente nel loro ultimo ep, segnalato tra i 25 video indipendenti italiani migliori dell’anno al PIVI 2012 – Premio Italiano Videoclip Indipendente per Miglior Montaggio.

Mi dirigo per incontrarli presso l’Overflow studio di Catania, luogo di elaborazione e di produzione dell’emergente musica catanese. A prima vista si intuisce subito che dietro i corpi abbastanza macilenti di Manuel Longhitano (chitarra e voce) Adriano Motta (batteria) e del più paffutello Max Marino (basso e voce) si nasconde una grande energia che li unisce e che sembra andare ben oltre il semplice dato musicale. “Ci conosciamo da molto tempo e ormai facciamo quasi tutto insieme” dice sornione Manuel mentre manda giù un po’ di pizza. Lo incalza Adriano “Abbiamo iniziato a suonare insieme ancor prima che nascesse questa formazione, ci chiamavamo i Picca sirius.” E non poteva essere altrimenti per questi tre ragazzi dalla battuta sempre in canna e dal sorriso sempre ben disposto. “Una volta sciolta la band c’eravamo promessi di non rivederci mai più. Ed eccoci qui infatti!” sentenzia Max.

Probabilmente un appuntamento che non poteva essere perso e che li ha portati a scegliere alla fine, tra le più disparate proposte, il nome di Martiri di Falloppio. Una proposta estemporanea così come estemporaneo sembra essere tutto ciò che riguarda il loro mondo: l’intuizione e l’intesa bastano da sé così come l’esperienza. Sί perché, sebbene mi trovi di fronte a dei giovanissimi musicisti, questo trio mostra già la consapevolezza di chi sa guardare oltre i passi appena compiuti, maturati attraverso numerosi live e diverse esperienze condivise anche con altre band. “Sappiamo che la gavetta è dura, ma forse è la parte più interessante che va fatta e vissuta pienamente” dice Max con una certa sicurezza. “I lunghi viaggi, le fatiche, le delusioni e le gioie sono ciò che ci fanno crescere. Così come l’incontro e le collaborazioni [Lombroso, Appaloosa, Carnesi] con chi è più avanti di noi, dal quale si può solo imparare e rubare qualche consiglio prezioso per il futuro” fa la coda Manuel. “Cerchiamo di crescere continuamente, sfruttando quell’affiatamento che ci appaga e che non ci fa chiedere altro” prontamente scatta Adriano, confermando una collaudata sinergia tra i tre.

Si capisce che i Martiri hanno una visione molto chiara di loro stessi e dell’esistenza della loro musica. Non hanno bisogno di altro che di una chitarra, una batteria ed un basso per dimostrarlo. Niente fronzoli; solo la voglia di comunicare ciò che la scintilla dell’ispirazione infiamma durante le jam dalle quali finiscono per nascere le loro canzoni. “Non premeditiamo nulla, tranne qualche volta. Si va in sala e si pensa solo a suonare improvvisando. Poi pensiamo a quali potrebbero essere i riff migliori da sviluppare. Lavoriamo molto sulle singole composizioni, pur cercando di non appesantirle mai” spiega Manuel.

All’interno di questa band tutto nasce dall’insieme e tutto vi fa ritorno, tutto appartiene all’essenza del singolo senza il supporto del quale il trio non potrebbe mai essere e viceversa. Ciò vale anche per la scrittura. I testi sono frutto di una terapia intima che vede protagonista tutta la band, dove ogni personale verso è un contributo ad un mosaico collettivo assemblato e visionario come in Ortopedico. “Per i testi, Max fa il grosso del lavoro, lasciandosi aiutare da ognuno di noi” dice Adriano, mentre a tal proposito Max spiega di come durante la sessione di riprese per l’ultimo omonimo ep mancassero al momento della registrazione della voce alcuni versi in Vecchio cane pazzo e Bluesjob. “Ma niente paura! Ci siamo chiusi in sala poco prima e abbiamo trovato quello che cercavamo” conclude fiero. Si può dunque intuire come la condizione di band venga anche intesa da questi tre ragazzi come una continua e gagliarda sfida alle leggi più codificate della buona composizione. Ma nulla è affidato al caso, nulla è mai affrontato superficialmente. Il loro è un tentativo nuovo: cercare di comunicare con responsabilità storie e pensieri da un’altra prospettiva. “Non ci prendiamo sul serio, farlo non ci riuscirebbe naturale. L’ironia è ciò che ci permette di cogliere un senso diverso in ciò che ci capita e che vogliamo raccontare. È un mezzo come un altro per dire qualcosa. Nelle nostre canzoni non vogliamo lanciare chissà quale messaggio, vogliamo solo raccontare e raccontarci così come siamo nella quotidianità” si giustifica Manuel conoscendo anche i rischi di un simile linguaggio.“Fare ridere sul palco è un’arma a doppio taglio” sa bene Max. “Può sembrare un po’ paraculo e può portare ad un giudizio superficiale e troppo sommario. Ma non chiamiamo la nostra musica ‘demenziale’. Abbiamo un nostro modo di dire le cose sul palco che, chi ci conosce, sa che rispecchia anche il nostro modo di affrontare la vita di tutti i giorni. L’ironia ci aiuta indubbiamente a parlare in maniera non troppo seria delle cose ed è indubbiamente un buon escamotage da utilizzare anche per tenere sempre vigile l’occhio dello spettatore.”

Le numerose gag che i Martiri puntualmente preparano sul palco, sono dei veri e propri numeri pensati (ma a volte non troppo) per non far calare mai l’attenzione dello spettatore. La loro ironia e l’irriverenza spiazza, disorienta e probabilmente fa centro sull’esigenza di vedere sul palco un rock sprigionato contro qualsiasi costruzione artificiosa e stereotipata. Le numerose contraddizioni che si incontrano nei loro testi (Il futuro non è più quello di una volta/Al passato non pensare poi si vedrà – Bluesjob), così come in filastrocche quasi apotropaiche a metà tra farneticazione e illuminazioni improvvise (Vecchio cane pazzo sotto un palazzo/Sta sotto un palazzo un vecchio cane pazzo/Vecchio cane pazzo sotto un palazzo – Vecchio cane pazzo), sono il sintomo di una probabile ricerca consapevole dell’irrazionalità e dell’immediatezza, adoperate come mezzi che rivelano ciò che abita nell’individuo e che rimane represso ed oppresso negli abiti della società. Il paradosso del loro linguaggio decostruisce la realtà ricercandone un nuovo senso.

I Martiri di Falloppio sbattono violentemente in faccia nel loro disco e nei loro live ciò che ognuno conosce e che spesso nasconde: l’istinto, i pensieri e i comportamenti più reconditi e devianti rispetto all’adagio comune. Il linguaggio si decompone e non può che non seguire la coda di una mente finalmente libera, sciolta in un flusso regredito che ha logica nella sua casualità: Mi salvo all’ultimo sparando parole a cazzo/Me le sto inventando proprio adesso (Mamma). Nei file riguardanti i loro testi, che proprio loro mi hanno consegnato, in quest’ ultima canzone ad un certo punto del brano è indicata la totale invenzione di versi che ricerca dunque il suggerimento primitivo dell’invasamento ritmico, puro, senza premeditazione. La follia che inscenano dunque è un esercizio di verità che fa sorridere e riflettere con sospetto: Abbiate fiducia nel consumismo/Prima o poi state certi vi ripagherà (Bluesjob). Testi apparentemente nonsense ma che in realtà rivelano una grande capacità di giudizio critico e di estetica linguistica da parte della band, come in “Mamma”, realizzata poco prima di una serata, che esprime un bisogno “malato” e conformistico di socializzare, attraverso una boria stereotipata: Mamma tu non comprendi le mie necessità di giovanotto alla moda/E non afferri come successo e ragione siano nettamente più economici di una preparazione.

Come anche in “Quel grosso machete che tieni in cucina”, allucinata e macabra automutilazione di un uomo accecato dall’amore, in pieno stile splatter particolarmente apprezzato dalla band. Testi caratterizzati anche da velate citazioni come quella riferita a Jeffrey detto “Drugo” del film Il grande Lebowski, nella canzone Vecchio cane pazzo, dove si racconta di uno scansafatiche disoccupato a cui la vita finisce inevitabilmente per chiedere amaramente il conto. Grande ingegno narrativo dunque e creatività visionaria che esplodono in fine nel videoclip Ortopedico realizzato proprio dallo stesso Adriano attraverso l’estenuante tecnica dello stop motion. “È stata un grande soddisfazione per noi e soprattutto per Adriano la selezione del video tra i migliori 25 indipendenti italiani al PIVI 2012” dice Manuel con orgoglio.“È stata una faticaccia” fa spallucce proprio l’autore del video “ma il risultato è stato grandioso, pensa che ho ricevuto anche la proposta di spiegare in un corso questa tecnica e ho dovuto dunque studiare ciò che in realtà avevo realizzato senza alcun tipo di conoscenza accademica”.

Ma forse non c’è così tanto da stupirsi. Laddove il terreno è fertile il fiore nasce anche senza il “sapere”, basta il sole della passione e una matura consapevolezza che la bellezza vada alimentata dalla spontaneità e dall’energia inquieta. Questi ragazzi ne hanno da vendere e a mezzanotte inoltrata è già per loro tempo di pensare a come farle esplodere sabato 8 dicembre a La Chiave di Catania.

Daniele Giustolisi

 

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