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Spengo il televisore, il nuovo album di Mimì Sterrantino. Intervista al cantautore siciliano

“Mimmo, oggi abbiamo sconfitto solo una piccola parte dei cattivi. Non ti fare infettare di nuovo e soprattutto aiuta chi ne ha bisogno; li dovrete fronteggiare nella tua realtà. Continua ad amare la vita e l’aria che respiri e mi raccomando, la Tv meglio eliminarla, fai una dieta artistica, ti voglio bene!”.

È a questa missione e con queste parole, prologo di un breve racconto fissato sul booklet ancora fresco di stampa, che Mimì Eric Sterrantino affida il compito di introdurre il lettore-ascoltatore all’interno del suo primo vero album Spengo il televisore. Altrimenti non poteva essere per un artista che scandaglia i suoi mondi e le sue intuizioni in maniera trasversale tanto nella scrittura quanto nel disegno, forme espressive che trovano perfetta sintesi nel suo eclettico linguaggio cantautorale.

Mimì Sterrantino, nonostante i suoi ventotto anni, da molto tempo è tra i più stimati cantastorie isolani. Conosciuto al pubblico grazie ad un mini album d’esordio per la Malintenti dischi nel 2007 e ad un’intensa attività concertistica in ogni dove, si è fatto sempre più apprezzare per le sue capacità di rinnovare una gloriosa tradizione, come quella della canzone d’autore italiana, che nell’immaginario collettivo ha pericolosamente rischiato più volte di cristallizzarsi in un dolce ricordo sbiadito. Lo ha fatto attraverso una contaminazione che attinge non solo a diversi gerghi musicali del globo, ma anche a tutto ciò che merita di essere percepito perché ambasciatore di un qualcosa che può smuovere le viscere di chi ascolta, fosse solo lo straziante e inaspettato canto di una sega che accompagna la melanconica Mentre gli alberi chiedono il silenzio, penultima traccia del suo nuovo album.

A distanza di un lungo silenzio discografico durato cinque anni, riempito da lunghe passeggiate tra more e agrumi da curare, nelle sue adorate campagne tra i monti di Castelmola (Me), nonostante le inevitabili incertezze e i ripensamenti circa un sistema-musica che disorienta e spesso illude, Mimì ritorna a farsi sentire con il suo nuovo album. In realtà non ha mai smesso di suonare in giro per la penisola e al di fuori di essa, complice anche la sua parallela esperienza con I Beddi, gruppo in auge da molto tempo, dedito al recupero della colta tradizione popolare della musica siciliana.

Lo incontro un pomeriggio nella sua piccola e accogliente casa a Taormina, quasi a metà strada rispetto alla sua Castelmola che domina su un’altura, adagiata, quasi fosse una sfinge che da tempo immemore osserva parte della costa ionica, con l’incantevole golfo di Naxos che dà le radici al vulcano Etna. È uno scenario da sogno, quasi metafisico nella sua sospensione, visibilissimo dai tornanti che a piedi percorro per raggiungere la sua abitazione sentendomi addosso, dall’alto, gli occhi del minuto paesello. “È lì che ho passato la mia infanzia tra pomeriggi infiniti a giocare” mi dice rivendicando fieramente il suo spirito molese, mentre mi accoglie sul divano. Piedi scalzi, fare sbarazzino, e un sorriso furtivo sempre in volto, anche quando si rivolge per un bicchiere d’acqua alla sua inseparabile Elisa, in dolce attesa e prossima a donare alla vita un marmocchio che Mimì non vede l’ora di avere già tra le braccia. “È incredibile, cu ll’ava ddiri!”.

Mimì, rispetto a qualche anno addietro, ti senti un artista più maturo?

Decisamente. Avverto una notevole crescita nella composizione e nella scrittura. Sono passati cinque anni dall’ep d’esordio e molte cose sono cambiate da quando giravo da solo per la Sicilia accompagnato dalla mia chitarra, l’armonica e la macchina. Da qualche anno sono supportato dagli Accusati – band composta da Flavio Gullotta al basso, Francesco Frudà al banjo e alla chitarra, Sandro Curcuruto che suona cucchiai e seghe con Andrea Nunzio addetto alla batteria – ragazzi eccezionali ed amici oltre che ottimi musicisti. Mi aiutano negli arrangiamenti e mi seguono ovunque. Qualche purista che cerco di convertire mi preferiva in solitaria. Anche per me suonare da solo con la chitarra è sempre qualcosa di unico e diretto, ma la presenza della band ha aiutato a far crescere me e i brani. Certo ci sono molti handicap come il problema dei cachet bassi o quelli del soundcheck che dura un’infinità – dice sorridendo – ma è un sacrificio che vale la pena di fare.

Da dove nasce quell’amore autentico nei confronti della terra siciliana e della natura che domina gran parte della tua produzione?

È un amore trasmessomi da mio padre attraverso la narrazione di storie passate, antiche che avrei voluto vivere e che sento comunque di dover preservare e trasmettere a chi mi sta accanto. Non apprezzo molto chi cerca di distruggere ciò che fa parte della nostra identità isolana, chi maltratta la terra per esempio con l’abusivismo e con giri d’affari sporchi devastando Quello che dovremmo amare – citazione di un suo profondo oltre che fortunato brano di denuncia, presente nel suo primo lavoro discografico –. Quanto più cresce la rabbia per questo mancato rispetto, tanto più si alimenta in me la volontà e il desiderio di amare e far amare la Sicilia e – me lo confessa sussurrando, con lo sguardo nel vuoto, quasi fosse un momento solenne – anche per la natura, per la campagna vale lo stesso. Non sono solo l’aria pulita e la rilassatezza a colpirmi, ma i suoni che vi posso trovare e che mi dicono che la natura ha una vita che si sviluppa e si muove. Altro che silenzio e immobilità! Pensa a quale bellezza e quale miracolo nel vedere anche un semplice fiore che nasce dalla terra. Quando gli occhi di un uomo brillano, nel dire queste cose, vuol dire che l’incanto abita nel suo cuore e l’amore con il quale vive e per il quale vive è destinato a non spegnersi più... Ma anche la città mi piace frequentare – irrompe dopo una pausa, sorridendo – la visibilità e la cultura che ti permette di avere sono molto importanti.

Spengo il televisore, titolo del nuovo album e dell’ultimo brano. Cos’è un autocomando, un’autoimposizione?

C’hai azzeccato! Ma è anche un invito rivolto a chi mi ascolta. Questa idea nasce un po’ di anni fa, con l’inasprimento della tv spazzatura che fa rincitrullire e ci rende schiavi delle poltrone. Bisognerebbe ritornare ad avere degli hobby da curare e portare avanti con passione come la lettura, lo sport…anche se la musica rimane sempre la migliore! È importante che i genitori indirizzino i figli nel mondo dell’arte che può essere d’orientamento e può aiutare a crescere.

Album che colpisce per la sua contaminazione, dal folk al blues al country.

È qualcosa di pensato. Mi è piaciuto parecchio, per esempio, introdurre strumenti della musica popolare, come la zampogna, nel country – in Scopa briscola e tressette– e imprimere al disco delle sonorità siciliane che dessero l’idea dell’ambiente in cui i brani erano stati creati. Questa è una conseguenza che proviene dai miei ascolti, rielaborati e contagiati tra loro. Il folk di mio padre suonato insieme a casa è il punto di partenza, così come la scoperta del rock americano, incoraggiata da mia madre svedese. Poi tante influenze, da Bob Dylan – anche se non capivo una mazza di ciò che diceva – a Jimi Hendrix e poi inevitabilmente i grandi cantautori come De Andrè, Conte, Capossela e Waits. Insomma amo tutta la musica fatta con passione e sincerità.

In questa direzione Il nostro cielo è il tetto dei rom, traccia numero 12 dell’album, è un omaggio alla cultura e allo spirito di queste popolazioni?

Proprio così! Un omaggio alla musica etnica che ha dato i natali al rock. Questo brano lo scrissi in occasione di un incontro nel 2008 con gli zingari di un campo rom di Messina, un’esperienza forte e difficile da dimenticare. Sono stato sempre affascinato dalle differenti culture del pianeta, in particolare da quelle che hanno conservato la libertà e quello spirito nomade che mi appartiene sin da piccolo. Amo la cultura e la musica balcanica, zingara, come quella dei Taraf de Haidouks, la sua capacità di trasmutare continuamente i suoi linguaggi attingendo da altre tradizioni, come la rielaborazione, per esempio, delle fanfare dei soldati turchi. Apprezzo molto anche il cinema di Emir Kusturica che spesso ha raccontato nei suoi film queste culture.

All’interno dell’album ci sono diversi sentimenti: amarezza, malinconia, speranza. Qual è lo stato d’animo che più ti appartiene e ti ispira?

Ciò che mi fa scrivere molto è la malinconia… – pausa che per un attimo lo fa rientrare alla base del suo mondo, per poi ritornare a dire – anche se l’ispirazione arriva sempre all’improvviso. Viaggiare mi ha dato molta ispirazione: partire senza una meta precisa né qualcosa di organizzato. Ricordo degli avventurosi interrail e un viaggio in Marocco nel 2009, completamente da solo ad esplorare luoghi meravigliosi.

Isole che vagano per il mediterraneo, passeggiate oniriche nel subconscio e personaggi strambi a popolare le tue canzoni. Ma quanto è importante per te la fantasia?

La fantasia mette in moto l’immaginazione e la scrittura. Gran parte delle mie canzoni nascono da visioni e storie che cerco in seguito di musicare. Giorgio e il re – brano storico del cantautore contenuto nell’ep del 2007 a cui ha voluto dare un ideale seguito nel nuovo disco con Giorgio e mepenso sia stata la prima di queste, così come per L’improvvisato transatlantico – traccia numero tre dell’album, nella quale Mimì racconta di un ingarbugliato scompiglio geografico nel Mediterraneo a causa di una Sicilia in fuga, riluttante ad essere legata al ponte dello stretto.

A te non pensa nessuno, bonus track del disco, è una canzone che denuncia il “sistema-musica” e quella solitudine che gli artisti devono saper fronteggiare nel loro cammino all’interno di uno scenario discografico spesso desolante. Da cosa nasce questa riflessione?

È nata da un periodo di frustrazione personale. Dopo la pubblicazione dell’ep, mi ero un po’ cullato o illuso di aspettare un qualcuno o un qualcosa che cambiasse nella mia vita chissà che. Ero abbastanza scoraggiato e disorientato da un sistema che ancor di più oggi, concepisce la musica come una sfilata di moda dove si compare e scompare con la stessa facilità di chi indossa gli abiti. Poi ho capito che dovevo contare sulle mie forze, sulla mia voglia di comunicare e sull’affetto degli amici e di coloro che mi hanno seguito in questi anni. Questo disco, con un po’ di ritardo, lo dedico a loro.

La registrazione del disco nasconde sempre aneddoti particolari. Ne vuoi svelare qualcuno?

Abbiamo registrato all’interno di un piccolo spazio di un’officina, con rumori sospetti che spesso si intrufolavano dagli ambienti circostanti. Tutto rigorosamente in presa diretta, con la recluta all’ultimo momento del batterista Andrea Nunzio che ormai è presenza fissa nei live. Le sessioni, nel mese di gennaio, sono state minacciate dallo sciopero della benzina di quel periodo, con il rischio di non poter contare sui diversi ospiti presenti nel disco, ma alla fine siamo riusciti a sfruttare pienamente il carburante sino all’ultima goccia.

Le domande finiscono qui, così come il nostro tempo a disposizione. Mi aspetta il viaggio di ritorno verso Catania dove domenica 21 ottobre alle ore 21.30 presso il Teatro Coppola, Mimì Sterrantino con gli Accusati farà tappa per presentare in anteprima Spengo il televisore. Mimì mi accompagna fino al terminal bus. Durante la strada parliamo un po’ di diverse cose tra cui la passione comune per la campagna (si rimprovera di averla trascurata abbastanza quest’anno) e il suo progetto di creare e affittare dei bungalow proprio nei suoi campi. Arriviamo e mi saluta ringraziandomi con un veloce “Ciao ciao mbare“, dal quale traspariva una certa fretta nel rimettersi in macchina e scomparire subito dopo il primo tornante per interrompere questa bella parentesi pomeridiana e tornare nei suoi mondi, nella sua realtà.

Daniele Giustolisi

immagini da www.mimisterrantino.it

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