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Recensione “Jersey Boys” di Clint Eastwood

image“Big Girls don’t cry” intonavano i Four Seasons all’inizio di “Dirty Dancing”, quando l’ingenua Baby giungeva nel villaggio turistico che le avrebbe cambiato per sempre la vita. Frankie Valli cantava lì delle “grandi ragazze che non piangono” mentre il suo falsetto inconfondibile siglava il “mood” di un film destinato a diventare da subito un cult adolescenziale. Li ho conosciuti così i Four Seasons, grazie a quel cinema che resta tutt’oggi il miglior jukebox per canzoni ed emozioni lontane nel tempo (soprattutto per quelle che non si suonano più neanche al prezzo di una monetina). Il cinema del sempre più puro e classico Clint Eastwood ci porta dritti dentro quel dimenticato jukebox grazie a un film dallo stile fresco, dinamico e coinvolgente come “Jersey Boys”. Una pellicola capace di raccontare un pezzo di storia (musicale) con invidiabile scioltezza e insieme di riflettere sul tempo che avanza con leggera ma mai superficiale onestà. Perché è innegabile che il fil rouge che attraversa le pellicole del grande Clint nell’ultimo ventennio sia proprio il ticchettìo di quell’orologio cui è legata inesorabilmente la condizione umana (era il tramonto di un’ epoca ne Gli Spietati, l’attesa della fine in Million Dollar Baby, l’aldilà di Hereafter e così via). E per un autore “roccioso” come lui, che ha girato (magnificamente diciamolo) la boa degli 84 anni, riflettere su quel tempo che è dato agli uomini diventa quasi una scelta obbligata oltre che, indubbiamente, “morale”. Ecco quindi che nell’omonimo spettacolo musicale di Broadway (puntualmente ricoperto di successo e allori) cui la pellicola si ispira, il regista deve aver trovato non soltanto l’occasione per restituire lo scintillio degli (apparentemente) spensierati Sixties, ma anche un nuovo e fresco espediente per meditare, in quel suo stile sempre classico e impeccabile, sull’uomo e sulle sue scelte. Del resto la stessa “trovata” di affidarsi alla narrazione diretta dei protagonisti che si rivolgono a turno alla camera (e quindi al pubblico) vale già a creare un distacco “critico” fra quanto vissuto all’epoca dagli stessi e quanto invece acquisito dalla loro esperienza, oltre ad evidenziare la natura di un’operazione piuttosto lontana dalla semplice o sterile rievocazione di un’epoca. Agli spettatori alla fine della storia tocca ovviamente l’oro (e la musica s’intende) ma anche le crepe dell’indoratura. E soprattutto tocca farsi testimoni di quel bilancio sempre un po’ amaro stilato dal regista nel corso di una narrazione che mescola ilarità iniziale in stile “goodfellas” alle emergenti incomprensioni caratteriali del gruppo, truffe alle spalle di tutti e un senso dell’amicizia e del dovere che cercano di sopravvivere nonostante le batoste familiari e della vita. E se brani come “Sherry” “Walk like a man” e “Rag Doll” risuonano nei jukebox generazionali come bandiere di spensieratezza tipicamente anni ‘60, un singolo “festaiolo” come “Cant’ take my eyes off you” (erroneamente attribuito alla sua interprete più famosa, Gloria Gaynor), nel film viene restituito per quello che è sempre stato; un gesto del cuore reso a un amico per superare un lutto altrimenti insostenibile. Lo interpreta un Frankie Valli-John Lloyd Young tra le luci sfolgoranti del teatro e il brillio degli occhi ancora lucenti di lacrime mentre viene consacrata davanti al pubblico la regola più vecchia e inossidabile del palcoscenico: the show must go on. Da encomio l’intero cast di splendidi semi-sconosciuti scelto da Eastwood con il solo “noto” Christopher Walken (sempre maiuscolo nonostante i pochi minuti complessivi di apparizione) a impreziosire l’insieme. Un gioiello di fine stagione che merita assolutamente di essere visto sfidando il caldo e il calcio. Non ve ne pentirete.

Andrea Lupo

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