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Recensione “Maleficent”

images“C'era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figliuoli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto…”. Questo l’incipit della favola originale di Charles Perrault, “La bella nel bosco dormiente”, nell’elegante traduzione di un altro maestro del racconto, Carlo Collodi. Elegante e unica a un tempo, perché già in quel classico “attacco” favolistico sono nascoste alcune impercettibili variazioni di senso, frutto dell’approccio tipico dei traduttori. Il Re e la Regina infatti sovente sono “disperati” o “molto tristi” e, in talune versioni, anche “tanto tanto arrabbiati”. Tutto questo a dimostrazione che la volontà di cambiare, diversificare e perfino alterare i sentimenti risiede già nell’animo di colui che racconta la storia e la tramanda ai posteri con l’intento (mai celato) di impadronirsene un po’. Perrault lo aveva fatto già nella sua edulcorata versione del più crudo racconto contenuto nel “Pentamerone” di Gianbattista Basile (sorta di Decameron favolistico), dove il bacio che destava la bella era invece un innominabile stupro. La Disney secoli dopo, nel riprendere l’originario scritto francese per la sua versione animata in Super Technirama, “epurerà” ulteriormente il racconto da quei risvolti che minacciavano non poco il lieto fine (nella fiaba il principe Filippo, imprigionato per 100 anni dalla strega, risveglierà Rosaspina solo da vecchio, mentre nessuna unione si concretizzerà fra i due). Forse fra un altro secolo, rivolgendoci a quest’ultimo “Maleficent”(distante "solo" 55 anni da quel capolavoro di grafica e musicalità), magari giudicheremo con più indulgenza l’azzardato spirito revisionista con cui la Disney ha voluto “ripensare” totalmente una delle sue “cattive” più iconiche ed aristocratiche, la strega Malefica. Così, tra scorie di un digitale fin troppo “spinto” e visivamente omogeneizzato, ma con l’aiuto di una Angelina Jolie più disinvolta del solito e dolcemente “materna”, magari riscontreremo barlumi di una morale favolistica ancora tutta da custodire, quella stessa morale che oggi ci appare inedita ed emancipata perché già lontana anni luce dalla passività tipica delle “belle” e dalla crudeltà a tutto tondo delle streghe. Ecco allora “Maleficent” 2014, fiaba live-action che ci dirotta spazialmente dalle architetture fiammeggianti e spigolose del Medioevo disneyano, a un qualsiasi castello fantasy in CGI. Creaturine affabili in paesaggi multicolori, maghe protettrici leziosette e un po’ inutili, guardiani del bosco e grandi fate dotate di corna e ali ma, soprattutto, di personalità superiore alla media della citata fauna mitologica. Maleficent-Jolie domina (per fortuna) su tutte le ovvietà visive del caso attraverso quel suo sembiante inizialmente tragico e disilluso, quindi pietoso e amabile o perfino, inaspettatamente, ironico. Del resto è l’avvenenza stessa dell’attrice a imporre sul personaggio una gamma di sfumature più intense ed umane, nonostante la teatralità del trucco voglia avvicinarla a quell’irraggiungibile icona del male dal viso affusolato (o “a fuso”, giusto per richiamare il tema delle spine che domina graficamente il capolavoro animato). Metamorfosi psicologiche quasi obbligate le sue, anche perché meglio capaci di condurre verso l’inedita morale finale, frutto del nuovo corso filosofico disneyano. “Frozen”, dopotutto, ci aveva già avvertiti: se le nuove principesse se ne infischiano del bacio del vero amore e puntano più a consolidare affetti familiari sicuri (lì era l’amore fra sorelle), allora del principe si puo’ anche fare a meno o, al massimo, non renderlo più il centro di tutte le preoccupazioni domestiche. Qui è una madre putativa a prendere il posto di un genitore più zelante nelle questioni di potere che in quelle familiari (nonché sentimentalmente arido), mentre l’altro “maschietto” presente nei dintorni (il principe Filippo) è poco più che un imberbe (ed imbelle) adolescente privo di spessore. Cambiamenti inevitabili anche alla luce del fatto che sono già le principesse (ma soprattutto le streghe) a non essere più quelle di una volta, mentre sullo sfondo il bene e il male, nella nuova narrazione erede dello zio Walt, finiscono per fraternizzare ben al di là delle dinamiche tradizionali dei canovacci fiabeschi. Sarà stata la società a cambiare e la Disney ad essersi adeguata? O magari è solo frutto di un trend che punta palesemente a costruire nuovi target adolescenziali? Di sicuro c’è che gli uomini, da queste revisioni, ne escono con le ossa parecchio rotte. Almeno fino al prossimo appuntamento. Che magari sarà fra altri 55 anni quando -chi lo sa?- verrà licenziata una nuova versione de “La Bella addormentata” stavolta dalla prospettiva di un principe dubbioso…

Andrea Lupo

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