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Alien covenant: tra luce e buio la riscrittura di una mitologia

 

In principio era il buio. L’oscurità estrinseca, arcana e senza vertigine del cosmo e l’altra interna, fosca e insidiosa di un dedalo dalle fattezze industriali. L’una (lo Spazio) quale eco smisurata e angosciante dell’altra (gli interni dell’astronave Nostromo). Poi venne la luce. Il candore latteo, levigato e marmoreo degli interni in cui ha luogo un imprinting e quello esterno e in apparenza lussureggiante di un pianeta da colonizzare; la luce della razionalità indagatrice e il suo riverbero dentro un silenzioso laboratorio d’analisi naturalistico. Fra questi due estremi, cinematografici ma ancor prima temporali, sta la creatura xenomorfa più famosa della storia, quell’alien che da quasi quarant’anni ibrida se stesso ancor prima che l’uomo, contaminando il genere e fecondando i suoi autori. Un Facehugger (questo il nome della primigenia forma tentacolare) che si appropria violentemente del corpo – solitamente maschile- in una rappresentazione rovesciata e proto-femminista dello stupro (per evocare una delle chiavi di lettura freudianamente più battute dagli analisti del cinema). L’oscurità cosmica e subconscia del 1979 (Alien) e il chiarore traslucido della ragione nel 2017 (Covenant) sono atti filmici posti alle estremità del discorso -ancora in fieri– del loro prolifico e per molti versi sfuggente autore, tale Ridley Scott. Un progetto il suo che negli anni ha inevitabilmente subito variazioni, imbattendosi in sdrucciolamenti e qualche passo falso o prendendo deviazioni inattese, ma che non ha mai abdicato a quella continuità registica quasi onnivora che è un po’ la cifra del suo cinema. Luce e buio del resto rappresentano da sempre i toni basici del pubblicitario Scott, le tinte essenziali di un director che (prima degli altri) ha fatto della filosofia estetica la sostanza del proprio ragionare cinematografico. Il cinema, illusione generata dal contrasto e dalle sfumature, per Scott è realmente il luogo in cui vita e senso tendono ad annidarsi là dove l’occhio non vede (o magari dove vede troppo). Una tela visiva autosufficiente ma disseminata anche di piccole cariche esplosive che attendono gli spettatori quali “detonatori” di significato intrinseco (Alien e Blade Runner sono ancora fra gli oggetti di speculazione maggiormente preferiti dai cinefili). Un cinema che dimora fra la luce dell’intrattenimento puro e l’oscurità informe dell’allegoria.

“Alien” venne dopo il manifesto d’esordio de “I duellanti” ma compendiò e rassodò immediatamente questa filosofia su visualità e intrattenimento, diventando, insieme a “Blade Runner”, l’opera che più definiva la personalità originaria e autoriale di Scott. Non a caso, complici le appropriazioni (specialmente quelle indebite) fatte dai diversi registi sulla sua creatura, quello del parassitoide xenomorfo è forse l’ambito di cui il regista inglese è rimasto più geloso e sul quale, per reazione, è tornato ad esercitare più recentemente il suo controllo, intraprendendo –tra Prometheus, Covenant e l’ annunciato Alien: Awakening –  una nuova ed ambiziosa opera di terra-formazione di quell’ormai mitologico creato. Ma se luce e buio in origine erano gli arnesi di una concettualità che muoveva da tecnica e sperimentazione (linfe necessarie per chi esordiva negli anni ’70), oggi paiono invece gli strumenti di un demiurgo che ha già sintetizzato nella sua professionalità ogni possibile padronanza sul mezzo e che, giocoforza, cerca altrove le sollecitazioni al suo inarrestabile discorso cinematografico. Dal nero dello spazio e dei budelli della Nostromo, dove il “risveglio” dal sonno criogenico dell’equipaggio faceva da ironico preludio alla mattanza che sarebbe seguita, si arriva oggi all’abbagliante prologo di “Covenant”, dove il neonato David (l’elemento androide ormai acquisito internamente alla narrazione) prende consapevolezza di sé e soprattutto del concetto della propria immortalità sintetica in contrapposizione all’umana mortalità naturale. Un filo rosso dunque lega a quasi quarant’anni di distanza le due opere ed è proprio il tema del risvegliarsi, dell’aprirsi ad approcci narrativi apparentemente simili ma a ben guardare anche antitetici.

In questa giustapposizione (meramente critica s’intende) fra i due incipit di allora e quello di adesso si può cogliere nel mezzo una particolare vocazione ormai fatta propria da Scott e contaminata, in modo quasi sotterraneo, dalle sue recenti incursioni dentro un atipico filone che potrebbe definirsi di stampo storico-revisionistico-religioso (fra Il gladiatore, Le crociate ed Exodus). Riscrivere nel peplum l’urbanistica del 180 d.C. o innestare dinamiche action all’interno del racconto biblico non sono in fondo piccoli atti di sovversiva superbia narrativa? Perché quel regista oggi è ancor più di ieri l’ architetto creatore della vita, il puntiglioso ordinatore di mondi e di dimensioni già precostruite (da se stesso). Un demiurgo che, proprio con Prometheus (titolo che reca già in sè la sfida nei confronti dei miti intoccabili), ha acquisito consapevolezza quasi “laboratoriale” delle molteplici possibilità delle proprie creature e creazioni e che è inteso oggi ad esplorarle in modo interstiziale, attribuendo significato e spessore ad ogni simbolo o elemento delle narrazioni precedenti (ma anche privando quel mondo della sua arcana e affascinante metafisica). L’ alter-ego filmico di questo Ridley Scott è (non a caso) proprio l’androide-mad doctor David, protagonista quasi assoluto  di “Covenant”, il sintetico che, presa cognizione iniziale della sua (tr)ascendenza divina rispetto al papà mortale (il capo delle Weyland Industries), finisce per rielaborare artificialmente l’ossessione umana intorno al concetto di eternità (con esiti rovinosi o mirabili a seconda dei punti di vista).

La questione sulla creazione che originava da una precedente distruzione della vita (tornano alla mente gli ingegneri suicidi del prologo di Prometheus), in Covenant sposa le tematiche dell’indagine empirica e quelle sulla razza subalterna e inferiore. Tra colte citazioni da Ozymandias di Shelly e le scale wagneriane, Scott evoca attraverso l’ossessione del replicante fantasmi di ascendenza quasi ariana (e al contempo omoerotici) e gli echi di un olocausto non indolore, all’interno dei quali però si cela l’assillo di un autore sempre più determinato a ridefinire i suoi stessi parametri  di luce e buio. Un cuore narrativo personale e di rango superiore incistato (va detto, meno pretestuosamente rispetto a Prometheus) fin dentro l’ossatura del B-movie, a sua volta devoto reboot dell’Alien del 1979 (il tema musicale di Jerry Goldsmith e la composizione dei titoli d’apertura stanno lì a ricordarcelo).

E lo xenomorfo? Verosimilmente è proprio lui il meno protagonista fra tutti. Lo è meno dell’eroina femminile Daniels (a sua volta calco più esangue della Ripley-Weaver) e altresì del doppio sintetico di Michael Fassbender,  l’androide Walter-David con l’anima (di silicone) divisa letteralmente in due. Ancora lontano dall’ibrido bio-mecha gigeriano, l’alien di Covenant (così come quello di Prometheus), è un furioso umanoide in cerca anch’esso di imprinting ma soprattutto è il ponte narrativo necessario, ma ancora quasi defilato, di una sceneggiatura che insegue fuori da ogni episodio il suo nuovo baricentro (e, siamo disposti a scommetterci, le cose non finiscono con quel metaforico ingresso nel Valhalla dei morti-dormienti). “Alien Covenant” è opera forse meno importante dei temi e delle suggestioni che evoca, ma è anche un ibrido che sa mascherare meglio l’ambizione del suo autore, mai tanto evidente eppure così discretamente tenuta a bada (sequenze come quelle dell’intesa fra i due androidi germogliata da una sessione di flauto sono piccole gemme insolite e inaspettate dentro un prodotto di pura sci-fi). Scott, fra le ineludibili increspature di stile intervenute nell’arco di una carriera, riesce comunque a elaborare una nuova poetica della luce e dell’ombra, barattando i chiaroscuri metafisici del passato con quelli netti e psicologici del suo presente, inevitabilmente diverso. L’impossibilità di replicare ciò che è già divenuto storia (del cinema) diviene così stimolo a spostare più in là gli orizzonti narrativi e sollecitazione ad una differente, meno amata forse ma ugualmente personale e concreta, attualità del proprio essere autore. Storcere troppo il naso non giova, anche perchè, a ben guardare, quello di Alien era già da tempo un universo ridotto a puro paradigma. In calce un’ultima notazione: “Alien covenant” è anche fantascienza visivamente appagante che sa intrattenere usando con abilità tutti i mezzi e le convenzioni del “risaputo”. Coi tempi che corrono niente affatto una questione secondaria.

Andrea Lupo

 

 

 

 

 

 

 

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