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“Weekend”- la recensione

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Esterno giorno. Un palazzo come tanti si sveglia all’alba brumosa di un weekend qualunque a Notthigham. Una finestra dall’interno inquadra il mondo fuori mentre in un essenziale ed ordinato corridoio è parcheggiata una bici. Bagno, vestiti e una droga leggera al mattino per fugare l’ipocrisia di una nuova giornata, barattando propositi nuovi come un paio di scarpe che si decide infine di non indossare, con il conforto e la prevedibilità di una serata familiare e domestica. Inizia così “Weekend”, prima incursione nel lungo di Andrew Haigh, già autore del successivo, bellissimo “45 anni”, film, quest’ultimo, che uno strano cortocircuito distributivo (tutto italiano) ha fatto uscire prima, facendone quasi il suo esordio melò, l’allestimento registico che precede l’asciuttezza di un’opera falsamente seconda come “Weekend”. Speculazioni critiche a parte, le due pellicole di Haigh, sorprendente ex-assistente al montaggio al soldo di Ridley Scott, risuonano della medesima, tenue e al tempo stesso potente sensibilità cinematografica. Quella capace, fin dalle prime inquadrature, di disvelare elementi psicologici fondamentali partendo da gesti ed oggetti quotidiani apparentemente insignificanti eppure colmi di verità sottaciute ed emozioni implose (o assuefatte). Russell, la prima metà protagonista del breve incontro (per citare David Lean) che seguirà, esiste già come personaggio negli interstizi di quegli impalpabili dettagli. Il suo denudamento successivo, fra quel timido, studiato relazionarsi col mondo esternamente diverso, il (sottilmente) maniacale collezionismo di oggetti appartenuti al vissuto altrui o l’archiviazione “diaristica” delle proprie esperienze, avverrà per gli spettatori insieme a Glen – controaltare ribelle del primo e comple(ta)mento ideale della sua figura – loquace e voracissimo partner incrociato casualmente in discoteca. La corrispondenza fra i due inizia dai gesti ordinari della giornata (il caffè, una passeggiata in bicicletta), evolve in discussioni secche su sesso e preferenze fisiche e inciampa duramente nel rimosso dell’altro prima di abbracciare nuovamente la tenerezza. Due giorni per conoscersi reciprocamente ed apprendere meglio il mondo. 48 ore che mutano con naturalezza in “45 anni”, tra premessa, svolgimento ed epilogo.

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Il sesso “primario” consumato (e non mostrato) della prima notte precede dunque il lieve e sempre più confidenziale intersecarsi di due quotidianità segnate già dalle rispettive esperienze e dai differenti incardinamenti sociali, prima ancora che dalle strettoie di un tempo (il weekend appunto) che ha già deciso per loro. L’imborghesimento, il controllo ma anche l’abbandono al sentimento e la sua teorizzazione da un lato; l’inflessibilità, la sfrenatezza sessuale e lessicale e l’inatteso travolgimento di un’affettività quasi indecifrabile dall’altro. Due istanze personali (e in filigrana perfino politiche) tradotte, durante un chiacchierato, lunghissimo weekend, nella più toccante delle fusioni sentimentali viste recentemente sullo schermo. Haigh qui compie abilmente l’operazione inversa a quella intrapresa in “45 anni”, facendo del tempo il più spietato e insieme il più connivente fra i vettori emotivi, la dimensione psicologica capace di annientare in un sol colpo un sentimento allevato un’intera vita o quel ricatto tenero che si dilata, nell’arco di un weekend, fino a diventare la più intensa ed eterna promessa fra anime. “Before sunrise”, ancora una volta.

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Con pudore e senso del ritmo d’altri tempi il regista ci introduce poi nel privato di Russell e Glen in modo così naturale da far credere che l’obiettivo della macchina da presa, durante il suo errare quasi documentaristico, si sia soffermato per caso a scrutare su queste due esistenze, giudicandole meritevoli di farle parlare per tutti noi. Perché i due protagonisti, nella loro cristallina ed umana evidenza, intonano null’altro che un toccante canto a due su quel mondo che soffre e lotta solo per ricongiungersi alla sua anima. Ecco perché l’intesa nonostante le discrepanze, il sesso mostrato solo dopo il coinvolgimento e la malinconia che si accompagna all’addio forzato, rilucono come vitali, erotiche e struggenti istantanee che appartengono a chiunque (e chi, nella vita, non si è fermato almeno una volta a guardare, non visto, la sagoma dell’amato/amata a sua insaputa mentre si allontana, magari è perchè non ha ancora amato). Perché Russell e Glen (Tom Cullen e Chris New incredibilmente in parte e naturali) sono omosessuali che si fanno interpreti di una delle storie d’amore più carnali, struggenti e universali portate al cinema negli ultimi anni, in barba agli studiati sentimentalismi hollywoodiani e agli artifici di tanto falso cinema-verità. Ghettizzarsi in questo caso è semplicemente questione di chi vuol fuggire la visione di questo gioiello.

Andrea Lupo

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