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“Ex Machina” la recensione

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“Il vero problema non è se le macchine sappiano pensare ma se gli uomini lo facciano”. La citazione è dello psicologo Burrhus Skinner, uno dei padri del comportamentismo (quello dei “cani di Pavlov” per intenderci), e si sposa mirabilmente con tutto quel cinema -e prima ancora letteratura- di fantascienza che indaga sui rapporti e i conflitti tra uomo e robot, su responsabilità dell’uno e singolarità (imprevedibilità?) dell’altro. Perché, in fondo, qual è lo scopo sottaciuto della robotica se non quello di spostare in avanti l’asticella dei limiti dettati dall’ingegneria, così “testando” l’ansia indagatrice dello scienziato e, in un certo qual modo, la tenuta della sua barriera etica? L’affiorare di un filtro morale nell’ambito della ricerca scientifica è fatto probabilmente più semplice quando sotto la lente stanno organismi biologici. Ma cosa accadrebbe se l’oggetto della sperimentazione possedesse vene in fibra di silicone, hardware al posto del cuore e un sembiante antropomorfo? Se il robot, in breve, fosse simile a noi, in ossequio a quella biomimetica sempre più accarezzata nei laboratori? Lo scienziato abdicherebbe assai più facilmente a quel filtro, spostando limiti su limiti e infrangendo codici ancora non scritti. In una parola, parafrasando Skinner, probabilmente rischierebbe di “non pensare” più, laddove le macchine intorno a lui “minaccerebbero” di farlo ancora e meglio. L’assunto scientifico-ideologico da cui muove “Ex_Machina”, elegantissimo esempio di sci-fi colta, crepuscolare e intimista, in fondo è questo. Non a caso l’evento da cui prende spunto il soggetto del film è proprio un test sulla percezione robotica, quel famoso test di Turing ideato per verificare l’intelligenza della macchina e la capacità di quest’ultima di simulare meccanismi cognitivi tipicamente umani. Un “gioco dell’imitazione” a tre voci che trova nel confronto quasi teatrale fra i due umani e il robot, uno svolgimento drammaturgico perfetto fatto di ruoli prestabiliti, manipolazione e, ovviamente, sostituzione.

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Ma quello sopra descritto non è il solo territorio sul quale il film di Alex Garland (già sceneggiatore di “Sunshine” e “Non lasciarmi”) sceglie di fare leva. Perché in quella tenuta ipertecnologica, collocata dentro un estatico Eden fuori dal mondo, la storia dello scienziato che invita l’abile programmatore a verificare la sua ultima A.I. (automa con le fattezze sensuali di una giovane dea e il nome di una diva, Ava), assume subito una evidente valenza metaforica. C’è lo scienziato-Dio che manda la sua Eva, modellata sui desideri del programmatore, ad incontrare Adamo, creatura adorante e dall’animo incontaminato pronta a cedere a quel ricatto irresistibile e inorganico. C’è la Genesi dunque, riscritta appositamente per l’Uomo 2.0, con la Natura “tentatrice” tenuta ben fuori dal cerchio ma un serpente adescatore più insidioso e impaziente già incubato dentro le fila del triangolo. Perché la Creazione, come ci insegna il mito, ha sempre un suo prezzo e l’istintuale, primigenia vocazione alla vita (e al desiderio) non si può isolare dentro una gabbia tanto traslucida quanto opprimente. La Tentazione infatti si insinuerà comunque, trovando altre vie, anche dolorose, e percorrendole al costo di altre vite. Ed è un prezzo che giustifica ogni possibile azione. Così il Peccato Originale della “ex_Machina” Eva-Ava non risulta il frutto di una degenerazione ingegneristica, ma somiglia più al riflesso tecnologico della nostra stessa brama di vivere, quella di cui ci siamo dimenticati (echi dai cloni di “Non lasciarmi”?), e in difesa della quale probabilmente non esiteremmo a far uso della medesima, spietata diplomazia degli insetti.

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Ava come Eva allora, l’incoscienza della vita che non scende a patti con il rimorso semplicemente perché ancora non lo conosce. L’Uomo invece resta solo un primo depositario di sentimenti, desideri ed empatia, cioè di tutto quello che si è sempre illuso di dominare, proprio come quel test che credeva di condurre (o di sabotare). Lui è l’essere che ha sospeso rischiosamente il pensiero mentre intorno a lui le macchine (o le donne o tutte e due) ordivano. Gli androidi in fondo sognano ancora pecore elettriche (per citare Philip Dick) ma, soprattutto, anelano una loro posizione nel creato, come Roy Batty in “Blade Runner” trent’anni fa, come la Ava di “Ex_Machina” oggi. Ed è uno spettacolo a cui il Demiurgo-scienziato può solo assistere passivamente o dentro il quale, perfino, soccombere. Perché Creatore e creature non sono che controparti dello stesso fenomeno, quello della vita che, una volta creata, non si volta più indietro a cercare le cause ma vuole solo ragioni per proseguire.

Andrea Lupo

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