Home » Cinema - Televisione - Musica » Jesus Christ è ancora più Superstar!

Jesus Christ è ancora più Superstar!

Cominciamo dalla fine. Non la più nota ma quell’altra che non ti aspetti. Il finale che si svolge dietro le quinte a sipario calato, quando il lampo dei riflettori è una macchia che lentamente sbiadisce sulla retina e le note si acquattano in ogni angolo del teatro, liete di essere state suonate ancora una volta. Tutte le note s’intende, a cominciare da quelle che risuonavano nella testa dell’appassionato ancor prima dell’inizio. Le struggenti musiche finali di Andrew Lloyd Webber siglano, senza più il supporto delle liriche di Tim Rice, il sacrificio più famoso ed influente della storia dell’Uomo. Tocca al brano “John Nineteen Forty-One” sintetizzare senza fronzoli il più famoso versetto del Nuovo Testamento congedando tutti dal proscenio. “Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto”. Tutto è compiuto, ancora una volta. Dall’ascesa alla caduta, dalle celebrazioni alle 39 fustigazioni, dall’amore al dolore (e ritorno) e, naturalmente, dal palcoscenico al pubblico. Jesus Christ Superstar, l’opera-rock che squarciò il velo del tempio teatrale nel 1970, quando spiravano ancora i venti caldi dal Vietnam, ha compiuto ben 47 anni, 14 in più di quelli del suo principale ispiratore ed è, ancora oggi, un’opera viva, arrabbiata e perfino traboccante d’amore. Un sentimento questo che traghetta, miracolosamente immutato, dalle scene dello splendido film di Norman Jewison alle scenografie dei teatri che hanno accolto e reinterpretato negli anni lo spirito e le suggestioni del cult originale. E non c’è probabilmente fil rouge più autentico, umano e idoneo a unire quelle due dimensioni dell’arte di quello costituito dalla presenza in scena di Ted Neeley, il Gesù del film del 1973. Geniale intuizione quella del regista messinese Massimo Romeo Piparo (figura-cardine ormai nell’ambito delle trasposizioni italiane di musical storici) di riportare in scena il capolavoro di Sir Andrew Lloyd affidando nuovamente il ruolo del Messia all’attore-feticcio di tre generazioni di cinefili (e musicofili). Scelta geniale sotto il profilo drammaturgico perché quel Cristo segnato dal tempo e dall’esperienza (nella cui voce però risuonano ancora tutti gli incredibili acuti degli anni ’70) si staglia oggi come una figura ancora più tragica e dolente di quanto non apparisse durante gli anni della protesta hippie. L’icona rock delle origini, quella divisa tra spavalda accettazione della predestinazione e l’angoscioso dubbio di divenire invano agnus dei, viene qui trasfigurata in sorprendente sindone vivente gravida di storia e di sofferenze già vissute, sorta di retroproiezione di quella umanità incapace di sfuggire nei secoli a seguire al proprio destino di auto-patimento e di dolore inflitto ad altri.

 

Scelta intelligente si diceva ma anche profonda sotto il profilo emotivo, perché quel Gesù roseo, ribelle e attraente di allora ha davvero lasciato spazio oggi a un Redentore maturo che esibisce con orgoglio e semplicità i segni del tempo che scorre. E si tratta di un Cristo che non elargisce più amore e compassione dietro l’egida del sacro ma che agisce dentro i panni più accessibili dell’uomo. La sorpresa, il finale inatteso di cui si è detto prima e che si è svolto appunto a sipario calato, sta nello scoprire che lo stesso Ted Neeley, l’attore e l’interprete di questa nuova produzione, ha fatto di una tale saggezza il suo personalissimo, spiazzante e sincero approcciarsi alla gente. Al termine della rappresentazione ad attenderlo nel foyer del Teatro Metropolitan di Catania (ma la scena si ripete identica in tutti i teatri) c’erano ovviamente i fan del musical e del film, tutti rigorosamente muniti di biro, LP d’epoca e fotocamere per immortalarsi insieme al mito. Peccato solo (se così si può dire) che in realtà di aspettare gli altri stavolta sembrasse più desideroso l’artista.  Neeley infatti si è concesso non solo alle classiche foto ma soprattutto a chiacchierate disinvolte e spontanee, sostenute in un clima di totale serenità, affettuosa partecipazione fisica e reciproco interesse. Il sottoscritto, mascherandolo sotto un puro pretesto giornalistico, non trova occasione migliore per poter realizzare quanto progettato da mesi: donare a Neeley un ritratto, il poster personale e ideale di quel musical sedimentato nell’anima durante gli anni. Ted, forse più abituato a dare che a ricevere, lo accoglie realmente col cuore in mano, scrutandone e studiandone ogni tratto e passaggio, ringraziandomi con un caloroso abbraccio finale. Se non sapessi che è veramente Neeley neppure ci crederei. Eppure è proprio lui. Gli scettici ironizzerebbero sulla cosa dicendo che il Jesus Christ è prevalso infine sulla Superstar, se non fosse che tutto l’incontro si è svolto con modalità così generose e rilassate da lasciare tutti, anche i più distaccati, significativamente commossi. Uno di quei momenti dello showbiz in cui si ribaltano le prospettive, col pubblico che diviene la “stella” e la celebrità che sparisce (ma in questo caso sarebbe meglio dire “si ingigantisce”) dietro l’ombra della sua stessa umiltà. Unico, toccante, magnifico Ted.

E lo spettacolo? What’s the buzz intorno a questa produzione firmata Peep Arrow? Tutto il bene che potremmo dirne. Perché l’allestimento scelto, sovvenendo all’impossibilità tecnica dei teatri nostrani di ripetere l’esperienza dei musical del West End londinese, riesce ad imprimere all’opera di Webber e Rice l’impatto scenico che più gli è congeniale, mantenendo inalterato l’equilibrio fra orchestra dal vivo “interna” all’azione (come da tradizione), le muscolari coreografie e una scenografia elettronica ed evocativa (ai megaschermi e a colonne-display il compito di richiamare frammenti della realtà storica dell’epoca e perfino di quella attuale). Conciliate così le istanze dinamiche della danza e le altre del raccoglimento psicologico e spirituale (nei numerosi, bellissimi assoli che coinvolgono le tre figure cardine dell’opera e cioè Gesù, Giuda e Maddalena), lo spettacolo riesce a bissare in toto la fluidità narrativa dell’opera filmica (che tuttavia poteva contare su soluzioni visive cinematograficamente potenti e ancora oggi insuperate) e a diventare rappresentazione autonoma e totalmente trascinante (soprattutto in quelle entusiasmanti parentesi di meta-teatro che coinvolgono il pubblico durante il pre-finale). E se trampolieri e mangiatori di fuoco hanno il compito di tramutare alcuni passaggi psicologici (come il senso di colpa di Giuda) in elementi scenicamente palpabili, il corpo di ballo assolve egregiamente quello di conferire all’opera l’energia e la sensualità tipiche della vita comunitaria (del resto l’apostolato rivisto in chiave hippie è sempre stato uno degli elementi di forza del musical). Encomiabile dunque l’intero cast di ballerini-coristi tutti splendidamente in parte e decisamente contagiosi nel loro entusiasmo. “Should I bring him down, should I scream and shout, Should I speak of love let my feelings out…” 

Maria Maddalena non sa come amarlo ma Simona Di Stefano, talento misterbianchese di soli 27 anni, sa perfettamente come cantare il suo amore “non corrisposto”. L’artista catanese nel toccante ruolo della prostituta innamorata di Gesù è bravissima nel rendere tutto il dissidio che scuote il personaggio “carnalmente” più trattenuto dell’intera opera, quello a cui Webber ha affidato le chiavi del dolore e della pietas collettivi. Le fa da contraltare fisico un altro splendido solista, quel Salvador Axel Torrisi che col suo Erode occhialuto, glitter e piumato, regala al pubblico l’attesissima parentesi glam di tutta l’opera. King Herod’s Song  è un autentico mo(vi)mento anarchico che, col pretesto dello scetticismo religioso (So you are the Christ you’re the great Jesus Christ.Prove to me that you’re divine – change my water into wine), porta in scena lo sberleffo necessario che ogni “star” che si rispetti deve giocoforza subire. E anche qui la storia si ripete, perché noi stiamo ancora tutti divertitamente al gioco.

E se il Pilato del notevole Emiliano Geppetti appare tanto impotente nel lavarsene le mani quanto invece potentissimo nel suo accusare (musicalmente) Gesù, non gli è da meno il Caifa di Francesco Mastroianni, impressionante nel richiamare la medesima timbrica del Bob Bingham dello schermo. Mentre Simone, Pietro e Hannas (rispettivamente Elia La Tauro, Mattia Braghero e Paride Acacia) completano l’eccellente quadro delle importantissime “spalle” musicali, il Giuda di Feysal Bonciani lo chiude definitivamente con la sua performance straordinaria. Innegabile co-protagonista (per molti vero protagonista) dell’opera di Webber, Giuda non è che quel contraltare ideologico indispensabile di cui il compositore si è servito per dare corpo a una dialettica esternamente musicale ma anche, intrinsecamente, politica (proprio come farà anni dopo con il Che di “Evita”, melodramma che mutua da JCS l’analoga struttura di dialogo fra presunti antagonisti). Giuda, al quale Bonciani presta fisicità, grinta e vocalità perfette, è l’incarnazione di quel tradimento odioso sì ma anche “santo” e necessario. Il suo è lo strazio di chi urla per quell’essere solo l’ingrato ingranaggio di un disegno già deciso. Ed è un sentimento che erompe costantemente dagli schemi melodici dell’opera perchè inascoltato dai più, una rabbia che soltanto alla fine potrà divenire protagonista assoluta e orgogliosamente rock. Giuda e Gesù nel laico vangelo di Webber, si ritroveranno finalmente uniti (proprio come Evita e il Che durante il celebre valzer) dalla sola e unica dimensione che il mondo della Chiesa e quello dello spettacolo potranno mai contemplare: quella del palcoscenico.

Profano? Ovviamente. Sacro? Senza ombra di dubbio. Per questo le ultime parole sullo spettacolo (e dello spettacolo) che vogliamo custodire dentro sono ancora una volta quelle interpretate da un tragico e umanissimo Ted Neeley. Sono le parole di Gethsemane, forse il brano che attendevamo di più. I’d want to know I’d want to know my God, Want to see I’d want to see my God”. Sapere, vedere, le prove della fede, proprio quelle che la fede (vera) deve fuggire per poter esistere. Neeley le fa aderire perfettamente al suo corpo maturo e a un Gesù provato dal dubbio. Sono il riflesso di un tormento umano che soffre per i suoi stessi limiti e per il suo stentato comprender(si). Fra le pieghe di quel dubbio tuttavia si può (e si deve) provare ancora a vivere e ad amare. Se qualcosa in più l’opera di Webber oggi ce la insegna magari lo deve proprio al suo splendido interprete. Perché in fondo la sua intensità (nel vivere, nel cantare e in quel generoso condividere e condividersi) ci parla timidamente della più umana ed importante fra le evangelizzazioni possibili. Il nome dateglielo voi.

Testo e disegno di Andrea Lupo

Lascia un Commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato.I campi obbligatori sono evidenziati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.