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Paterson e la poesia dell’immobilismo

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Paterson. O dell’immobilismo in movimento. Nell’era in cui la fabbrica delle immagini riflette criticamente sulla (sola?) dimensione visiva, Jim Jarmush si riappropria dell’altra dimensione imprescindibile della settima arte e la fa danzare con grazia attraverso lo schermo. Parliamo del tempo ovviamente. E’ lui, non il mite autista Adam Driver e neppure la sonnolenta cittadina Paterson – quella che ha dato i natali a Pinotto e ospitato poeti anarchici come Iggy Pop e Allen Ginsberg (ma anche anarchici veri come Gaetano Bresci qualche anno prima del regicidio che lo rese famoso)- il vero protagonista dell’ultima fatica dell’indipendente regista americano. Quel tempo che svicola cinematograficamente attraverso le convenzioni dei giorni di una settimana uguale a quella precedente (e probabilmente a quella successiva) e che poi si dilata miracolosamente negli intervalli fra una strofa e l’altra di una improvvisata poesia sulla capocchia di un fiammifero. Spazi bianchi fra versi sparsi che sono come gli interstizi di un’altra realtà senza tempo (l’anima). Sette giorni che rifanno il creato in chiave esistenziale, scandendo il nulla della routine, i sogni iniziati e mai portati a termine, l’amore che albeggia fra le lenzuola e l’inerzia che stempera in una birra serale. Quell’immobilismo che solo il cinema sa tramutare in movimento e che lo spettatore a sua volta muterà in significato. Jarmush fa di Paterson non tanto un personaggio ( o un paesaggio) e neppure una visione sociale d’insieme (sebbene la sua cittadina evochi insistentemente ossessioni biografiche e cinematografiche), quanto il luogo di quell’eterna coazione a ripetere che è la vita. Ma il suo sguardo,  nei confronti di questa umanità quieta e intrappolata nella sua autoreferenziale palla di vetro, non è critico e neppure commiserevole, ma è piuttosto quello gentile di chi guarda all’esistenza come al miglior dono di cui è capace il quotidiano. Comporre sonetti abbeverandosi alla fonte delle esistenze altrui, (re) inventarsi artisti gentilmente iperattivi, rinascere fenici sulle ceneri di un amore mai nato, sono doni e dannazioni al tempo stesso, tappe ricorsive di una realtà monotona e necessaria.  E se tutto procede uguale in quell’uguaglianza che riflette l’eterno, ciò non significa che l’immobilismo non abbia bisogno anch’esso di qualche sbalzo. Ci pensa un bulldog imprevedibile (nella sua proverbiale prevedibilità) a scossare cassette della posta e aspirazioni, resettando il timer del semplice esistere e settandolo invece su quello del vivere. Forse è solo il caso o magari un Dio dalle forme canine, di sicuro è la forza che ci rimette sui binari, in fuga sopra quel treno lanciato verso certa e (ig) nota destinazione.

Andrea Lupo

 

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