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Kubo e la spada magica- la recensione

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L’animazione al cinema costituisce ormai un continente a parte, caratterizzato da personalità, tecniche e tendenze del tutto peculiari e autonome. La storia che descrive, più o meno da quando è nata la settima arte, è quella della pura fantasia al lavoro e di un dialogo, fra mente e cuore, mediato dalla più potente e libera delle risorse umane: l’immaginazione. Perché sono sempre state favole intorno al fuoco con lo schermo cinematografico al posto del caminetto. Concluso il tempo delle sperimentazioni legate alla nascita del cinema stesso, e dopo il consolidamento dell’immaginario disneyano durato quasi un secolo, l’animazione dell’ultimo ventennio ha inteso sempre più legare la pura arte immaginativa alle sorti industriali e, purtroppo, anche alle serializzazioni del blockbuster moderno. Così se la Disney aveva dominato con le proprie visioni fantastiche il mercato dell’animazione fino alla metà degli anni ’90, mentre la nascita della “costola” Pixar aveva svecchiato, per tecniche e linguaggio, l’originario classicismo dei tempi d’oro, innestando ritmi, piglio moderno e umanissime nevrosi all’interno di tessuti narrativi favolistici, la successiva nascita di settori animati come Dreamworks Animation, Illumination e Blue Sky, dagli standard espressivi a base di comicità e leziosità, più che la reazione inevitabile a una colonizzazione dell’immaginario, è parsa motivata da un’esigenza assai meno nobile: quella di spartirsi fette di mercato di una torta diventata ormai troppo appetibile. Risultato di questa rivoluzione (apparente) del mondo di Cartoonia è stata una progressiva brandizzazione  del prodotto  che ha finito per coinvolgere verticalmente storie, personaggi e perfino espressioni, il tutto a scapito della sperimentazione pura. E se in mezzo ai giganti c’è stato spazio anche per Studio Ghibli (Miyazaki) e indipendenti francesi, al secolo attuale l’animazione si è ridotta a tendenze piuttosto definite e prevedibili: da un lato serializzazioni che guardano al prodotto finito quale veicolo di merchandising (i Minions, per quanto schizzati e carini, restano creazioni giustificate solo dallo status di pupazzi che li precede), e dall’altro creazioni che puntano prepotentemente al mercato globale (Pixar, Disney) seguitando nel proprio classicismo formale e sostanziale. Tra queste due tendenze si colloca l’opera di coloro che osano mediazioni più audaci e meno prevedibili, in grado di situarsi in quell’interzona poco esplorata fra arte pura e commercio. Proprio come fa la Laika di questo “Kubo e la spada magica”.

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Premessa lunga ma forse necessaria per comprendere e soprattutto contestualizzare meglio il raro e perfino rischioso lavoro intrapreso da questa casa di produzione sponsorizzata Universal. Perché “Kubo”, gemma di stagione e al momento miglior film d’animazione dell’anno per chi scrive, è la sintesi di una filosofia artistica che merita di essere condivisa e premiata dal pubblico dell’animazione, soprattutto da quello adolescente e adulto, talmente distratto dagli  ammiccamenti smorfiosi dei “Pets” e degli Scrat, da aver dimenticato il principio fondante di tutte le storie: il coinvolgimento emotivo di una favola intorno al fuoco. Partiamo dalla tecnica prima, da quell’animazione a passo uno (la cosiddetta stop-motion) ormai ampiamente recepita dall’industria dei cartoon dopo lo sdoganamento operato da Tim Burton ( Nightmare before Christmas e La sposa cadavere senza dimenticare però l’outsider Wallace & Gromit) e qui resa in modo così fluido e ben integrato alla fotografia digitale da suscitare ampia meraviglia sia nelle iridi che nel cuore. Dall’esordio dark, rugoso  e angosciante di “Coraline e la porta magica” fino all’animazione pop, ammiccante e halloweeniana di “Paranorman”, passando per le contaminazioni estetiche e i temi sociali di “Boxtrolls”, il passo da gigante operato dalla Laika è ormai evidente e si riflette qui nella creazione di un contesto visivo maturo e dal sapore antico (il Giappone rurale), ibridato però da giuste dosi di contaminazioni fantasy. E se creature e scenari in plastilina restano come sempre ammirevoli (a stupire stavolta c’è un enorme scheletro combattente giustamente omaggiato durante i bellissimi titoli di coda), a rimanere impressi nella memoria ci sono scorci magnifici come il cimitero degli avi, un mistico fiume illuminato da lanterne votive e soprattutto gli splendidi origami animati che accompagnano l’azione e la narrazione, chiaro omaggio a un’arte ancestrale e povera ma dall’immenso e immutato potenziale evocativo.

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Poi c’è la storia appunto, quella di Kubo intrepido ragazzino suonatore dello shamisen (il titolo originale “Kubo and the two strings” è infatti un riferimento alle corde del tradizionale strumento del teatro Kabuki) che si guadagna il pane animando davanti ai propri compaesani i suoi personaggi in origami protagonisti di racconti senza una vera fine. Kubo vive così, dalle luci dell’alba fino all’ombra di un tramonto che lo riporta subito al suo principale obbligo domestico: accudire una madre psicologicamente provata che va progressivamente “scomparendo”. Su questa famiglia a metà incombe costante la minaccia del ritorno delle due perfide zie e soprattutto l’ombra di un nonno (il malvagio Re Luna) intenzionato a prendersi l’unico occhio del ragazzo dopo avergli già rubato il primo in un passato oscuro. E dal passato quei pericoli non tarderanno a riaffacciarsi con prepotenza, costringendo Kubo a intraprendere un viaggio che si rivelerà non soltanto fisico ma soprattutto interiore. Accompagnato nella sua avventura da una protettiva scimmia bianca e da un gentile scarabeo-samurai – proiezioni incarnate dei feticci che accompagnano già le sue storie- Kubo affronterà i pericoli del ritorno della sua famiglia “spaccata” in due, inseguendo magici accessori profetizzati per lui e giungendo a  risoluzioni familiari inaspettate. Senza addentrarsi troppo nei territori di una favola assai stratificata (i cui significati andrebbero colti dai genitori insieme ai figli) o anticipare nulla circa il suo bellissimo epilogo,  va detto subito che quella di Kubo è una storia che traveste abilmente la sua metafora col manto infantile dell’avventura, trovando un equilibrio esemplare fra emozione, divertimento e riflessione. Raramente un prodotto d’animazione mainstream è riuscito a condensare all’interno di una vicenda che segue i ritmi del romanzo di formazione per ragazzi, tematiche potenti come l’elaborazione del lutto, il culto del passato, la responsabilizzazione familiare e perfino la necessità del racconto quale trasfigurazione psicologica e “catartica” del reale. E se la Laika ci aveva già abituato ad avventure fiabesche velate dal nero della realtà, in “Kubo”, complice soprattutto l’incontro con la filosofia orientale (ed evocare Miyazaki qui non è fuori luogo), la casa di produzione osa ancora di più, inoltrandosi in territori più affini agli adulti che ai fanciulli e toccando probabilmente il suo vertice creativo.

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“Two strings” recita il titolo originale (che la distribuzione italiana ha trasformato nel più infantile “la spada magica”), perché nella vicenda del giovane cantastorie paiono incontrarsi ed intrecciarsi -proprio come “due corde” dello shamisen- altrettante istanze del racconto; quelle personali del protagonista alla ricerca di un passato che lo “liberi” fin verso l’età adulta e quelle dell’identità di un Giappone sospeso a metà fra ragioni del cuore e i richiami della guerra. Ed entrambi i fili, dopo un’avventura che sfiorerà a tratti il simbolico (vedi la discesa nel giardino sottomarino degli occhi) e soprattutto dopo l’acquisizione di una consapevolezza diversa da parte del protagonista, si scioglieranno nel più intimo e disinteressato dei gesti: quel perdono che pone idealmente un sigillo su ogni conflitto e che costituisce allegoricamente la “terza corda” mancante al suono dello shamisen del protagonista. Ed è sulla dolcezza di queste ultime note che tutti potranno trovare finalmente la pace e ogni storia incontrare la sua “fine”.

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Inno al racconto intelligente e alla necessità più che mai attuale dei cantastorie, “Kubo” è forse il prodotto d’animazione industriale più maturo visto in tempi recenti. Di certo è quello che più rischia, in mezzo ai troppi trolls e animali domestici, di venire schiacciato e dimenticato dal pubblico familiare e non. Per questo ne va consigliata caldamente la visione a tutti, dai piccoli accompagnati (perchè la condivisione è parte della favola) a quei grandi in cerca di storie capaci di ferirli con dolcezza. Perché, succeda intorno al fuoco o davanti a uno schermo, è oggi più che mai necessario che una fiaba vera incontri finalmente tutti i suoi possibili uditori.

 

Andrea Lupo

 

 

 

 

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