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Neruda- la recensione

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Non v’è forse genere più rischioso, e talvolta anche pedante, del biopic. Perché è quello che più di ogni altro si presta a mortificare potenzialità di scrittura e capacità di astrazione del mezzo cinematografico in ragione dell’ossequio dovuto a personaggi e vicende reali, a quanto, cioè, sia stato già (i) scritto nel registro temporale degli eventi. Rispetto al monumento eretto da storia, storiografia e ideologia intorno alle figure di volta in volta trattate, il cinema può scegliere di aderire -più o meno con convinzione- alla pratica del racconto lineare, al rito della celebrazione agiografica oppure, ma assai più raramente, allo scomodo mandato della revisione critica. Di certo v’è che la necessità di seguire il flusso cronologico-consequenziale di cui si compone ogni biografia, finisce spesso per mortificare il movimento naturale del mezzo cinematografico, quel suo tendere franco e quasi incosciente verso l’invenzione, la re-immaginazione e le intrepide commistioni. Per questo, quando non si limita a cartografare per immagini la (presunta) verità, il cinema migliore è quello che innalza non tanto i fatti quanto le suggestioni al rango di veri protagonisti di una biografia. Perché sappiamo per certo che Salieri non era ai piedi del letto a scrivere le note del Confutatis sotto dettatura di un Mozart stravolto dalla febbre, ma siamo altresì consapevoli che senza quel “falso storico” così audace voluto all’epoca da Milos Forman, oggi non ci sentiremmo parte del coro assolutorio che in quello splendido pre-finale del film consegnava il genio ai suoi dei e il resto del mondo alla mediocrità. C’eravamo anche noi ai piedi del letto nel finale di “Amadeus” e solo un falso (prima teatrale e poi cinematografico) poteva dare corpo a una verità così sublime.

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Siamo idealmente ai piedi di un letto anche in questo “Neruda”, opera formalmente classica ma dai risvolti narrativi turbinosi e sorprendenti, firmata dal  talentuoso e prolifico Pablo Larrain (Tony Manero, No- I giorni dell’arcobaleno e prossimamente Jackie) che in occasione della presentazione a Cannes 2016 (dove il film, scandalosamente, non era in concorso) ha lanciato al pubblico l’avvertenza più importante ma anche quella meno necessaria: “La mia non è una biografia su Neruda, ma un film sull’universo nerudiano“. Ma soprattutto, precisiamo noi, è grande cinema. Colto, politico, avventuroso e esistenziale. Cinema mutaforma sostanzialmente, capace di accedere con impeto alla Storia (di un paese, della libertad e perfino di un’identità culturale e ideologica) attraverso la figura corpulenta e libidinosa del poeta cileno, usato inizialmente come voce scomoda di un popolo oppresso e chiave di accesso letteraria del suo auspicabile riscatto sociale. Inizialmente si diceva, perché se i fatti che lo vedono protagonista nella premessa storico-documentaristica sono noti (siamo nel 1948 all’indomani del voltafaccia del presidente Videla nei confronti  del comunismo, col senatore Neruda che “piscia” letteralmente in faccia il suo storico “Io accuso” ai colleghi), progredendo nello svolgimento sempre più ci si accorge che il mito di carta (e di carne) del poeta non è che la filigrana di un discorso ben più articolato, personale e autoriale. Ed è un percorso che prende avvio proprio dall’elemento biografico, quando lo stesso Neruda (un perfetto Louis Gnecco) è costretto a imboccare la via della fuga dopo l’ordine d’arresto emesso nei suoi confronti da Videla. Da qui infatti il cinema di Larrain, prima contenuto dentro le griglie di un (frammento di) racconto raffinato e convenzionale, si “libera” anch’esso, iniziando un impercettibile ma inesorabile smantellamento del biopic comunemente inteso, entrando ed uscendo – con logica inappuntabile – dentro e fuori gli schemi sin lì costruiti e scrivendosi letteralmente per i suoi protagonisti e davanti al nostro sguardo sempre più ammirato. Cinema che diviene sempre più fantastico e fecondo, anche a scapito (ebbene sì) della verità. E mentre dialoghi e piani visuali si sovrappongono ed alternano fra loro, contribuendo a questa scomposizione raffinata della linearità, il narratore-regista passa il testimone a un personaggio secondario (come detesta definirsi quell’investigatore “un po’ violento e un po’ coglione” che si lancia con furiosa frustrazione all’inseguimento del poeta) la cui voce fuoricampo diviene motore e ragione dell’essenza del racconto, in un gioco di cambiamenti prospettici romanzeschi (dall’extradiegetico della voce off all’intradiegetico del personaggio interno alla storia) che avvolge e affascina non poco.

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La storia inizia così a defluire fino a noi attraverso l’analisi e il confessionale (che è anche autocoscienza di un genere fondamentale per quell’epoca cinematografica e cioè il noir), danzando con gravità su note classiche (Grieg, Penderecki, Mendelsshon) fuse mirabilmente con l’immagine, facendosi colta astrazione sul “reale”, creazione in divenire e soprattutto arte che “preme” per farsi finalmente carne. Il poliziotto in cerca di riscatto – un magnifico Gael Garcia Bernal– è dunque la penna che muove l’ispirazione di Canto General (opera concepita proprio durante la fuga),  ma è anche un altro figlio oppresso e silenzioso del popolo che cerca nello scrittore quel verso non ancora scritto, il riconoscimento di un padre (“Ti amo poeta, ti amo. Non immagini quanto“) e soprattutto l’attestato di esistenza che gli consenta l’ingresso ufficiale nel mondo. Perchè agguantare il poeta significa stavolta farsi (com) prendere dal suo mondo. “In questa storia giriamo tutti intorno al personaggio principale” recita la moglie e sua insostituibile ispiratrice, l’artista Delia Del Carril (Mercedes Moràn splendida). Forse ci giriamo anche noi. E Neruda? Null’altro, probabilmente, che uno specchio riflettente per ogni altra identità. Lo vediamo sì sempre in scena ma lontano da ogni rappresentazione agiografica (appare ubriaco, donnaiolo ma anche irriverente e arrogante col quel suo sfidare l’autorità che vuol braccarlo), emblema necessario di un’ideologia ma anche ingombrante proiezione della contraddizione implicita (e attualissima) a essa, quella benissimo sintetizzata nel folgorante dialogo con una figlia del popolo ubriaca e amareggiata in un sontuoso salotto che lo celebra in clandestinità. E forse, per Larrain, Neruda è perfino meno importante di tutti quei figli- puttane e travestiti, prigionieri e bimbe infreddolite, mogli tradite e muse orgogliose- che compongono il mosaico silenzioso del suo mondo in libera strofa.

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E che quel mondo (noi?) non aspetta altro che un verso (non importa da chi ma soltanto quando) è espresso significativamente dal personaggio di Peluchonneau, prefetto non ancora di carne e neppure di carta. Il suo battesimo non può che avvenire alla frontiera (il confine fra finzione e realtà?), nel nitore di un paesaggio che un genere (il western) ha già tramutato in nuovo alveo esistenziale (vedi alla voce Tarantino). E’ quando il sangue finalmente scorre, caldo e dolciastro nel candore della neve, che un nuovo parto può finalmente compiersi (e un’opera venire al mondo) e che tutti – da Neruda al prefetto fino a noi- ci si può risvegliare ancora ai piedi dello stesso letto. Sazi, orgogliosi, finalmente vivi. Siamo uno spazio bianco tra strofe che nessuno ancora ha scritto. Ma forse siamo stati anche un po’ poesia durante la visione di questo gioiello.

Andrea Lupo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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