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The Witch, l’horror perfetto fra seduzione e dannazione

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Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle diceva Voltaire. L’aforisma del celebre filosofo francese spiega meglio di cento trattati il meccanismo psicologico e (ir)razionale che sussiste dietro il terrore umano della stregoneria. Frammenti di un pensiero lucido e lungimirante con il quale si cercava di respingere, nell’Europa ostinatamente bigotta del 1700, l’ingombrante residuato di superstizioni e persecuzione che ottundeva le menti (cristiane) e investiva chiunque (il popolo dei fedeli) del sacro potere di giudicare, condannare e giustiziare. L’accusa diventava esigenza comunitaria e il marcio della propria fede si lavava (e sublimava) nelle tinozze dei peccati altrui, mentre la delazione, in ultimo, si elevava a nuova virtù cardinale. Il fuoco dei roghi, nell’illusione di interrompere il patto carnale fra stregoneria e Satana, ne siglava invece uno nuovo fra un’umanità ferina e invasata, sacre scritture distorte e un bieco moralismo di fondo. La religione cristiana già allora rigurgitava impunemente il suo fondamentalismo, rivestendo di un burqua mentale la concezione della donna, creatura depositaria del peccato primordiale e dunque, per definizione, costantemente “rinviata a giudizio” per ogni sua futura ricaduta nel vizio. Queste, semplificazioni a parte, le principali radici psicologiche alla base della concezione popolare di strega. Questo il pensiero che riuscì a transitare dall’Europa cristiana dei secoli XV-XVII fino all’America coloniale del 1600. Così, insomma, filava nei secoli l’ideale telaio che collegava la fede fra Vecchio e Nuovo Continente (e che congiunge ancora certi integralismi di allora a quelli di oggi).

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Robert Eggers nel suo “The Witch”, non intende tuttavia richiamarsi esplicitamente alla stregoneria così come recepita dall’Europa di Voltaire, né vuol raccontare processi o persecuzioni che avrebbero avuto luogo in America soltanto agli inizi del 1690. Ben consapevole del fatto che lo spettatore ha già incamerato quelle idee e conosce già tutti gli esiti (tra processi americani a Salem e i roghi europei), il regista preferisce imbastire con questa sua sorprendente e matura opera d’esordio un personalissimo e al tempo stesso rigoroso studio sociale su caratteri e ambienti, quelli attraverso i quali mira non solo a raccontare una storia ma soprattutto a catturare la Storia (con la “S” maiuscola). La sua però è una cronaca che si nutre della potenza allegorica e immaginifica della fiaba d’orrore popolare (il sottotitolo “a New England folk tale” non lascia spazio a dubbi) e che usa le armi seduttive del racconto favolistico di formazione per immergere la sua stessa narrazione in una ulteriormente metaforica e sottilissima ambiguità. Un inganno che -chissà?- magari è frutto anch’esso delle arti magiche di una fattucchiera. E’ dunque il rigore storico del regista ad aver usato la favola in “The Witch” o è stata la narrazione della strega ad aver manipolato i proponimenti storico-documentaristici del regista (quattro anni passati a spulciare diari e documenti dell’epoca)? Godiamoci pure questo gustoso dubbio mentre ci facciamo diabolicamente circuire dalla fosca bellezza del film, horror potente e sublime come pochi nel cinema recente.

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New England, 1630. Per volere di un rigoroso pater una famiglia di puritani inglesi si auto-esilia dalla colonia di pellegrini alla quale appartiene in cerca di una nuova landa ove realizzare i propri ideali integralisti di fede e lavoro. La ricerca del riscatto economico si intreccia con il perseguimento di una assoluzione da parte di un Dio severo, la cui silente volontà (così come interpretata dal padre William) pare imporre loro solo sacrifici e il fardello dell’offesa biblica. Ma la campagna scelta da questi rinnegati è soltanto un Eden capovolto dove il peccato ha abitato già, una distesa spoglia e sterile dove il sole ha cessato di posare il suo occhio e la foresta vicina, invece di offrire sostentamento, rende solo fronde minacciose e carcasse scheletriche di vecchi alberi, muti testimoni del disfacimento esteriore ed interiore. Qui il mais nasce già morto, i fusti si stagliano come tetri e silenziosi emissari di cattiva sorte e il comportamento degli animali trascende la loro stessa natura di prede o di ausilio, diventando riflesso di un biasimo collettivo di cui la scomparsa del neonato Samuel è solo il primo dei segnali. Quest’ultimo è il funesto e inspiegabile episodio che si consuma subito dinanzi (ma sarebbe meglio dire “oltre”) allo sguardo esterrefatto della sorella adolescente Thomasin, il fatto inatteso (e quasi metafisico) che innescherà la più tremenda e inesorabile delle progressioni collettive verso buio e dannazione. E poco importa se le immagini successive all’impossibile rapimento ci  mostreranno vecchie imputridite e riti blasfemi che insistono sui corpi infantili, perché il vero orrore, al di là di quella megera scorticata appena intravista, consiste piuttosto nella disintegrazione del tessuto familiare che seguirà, una tela che si lacererà incontrollatamente sotto i colpi inferti da sensi di colpa, sospetti reciproci ed eresia. L’orrore, suggerisce Eggers secondo la più classica delle accezioni, risiede nell’occhio di chi assiste impotente agli eventi e gemma, come la natura insegna, intorno alla distorsione degli equilibri umani, sociali e soprattutto familiari.

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Che cosa c’è, dopotutto, di più terrificante di una deriva provocata dai rancori sedimentati a lungo dentro la palude fangosa dell’istituzione fondante per eccellenza? Il nucleo in disfacimento filmato dal regista (secondo una spietata logica centripeta che parte dall’esterno- il piccolo Samuel- fino a investire il pater familias) reca dentro di sé impulsi puberali (quelli del giovane Caleb nei confronti della sorella Thomasin), vocazioni insoddisfatte (in Thomasin residuano ancora flebilmente i ricordi degli agi inglesi) e, naturalmente, la messa in discussione del sistema patriarcale, quest’ultimo minato da debolezza caratteriale e inadeguatezza. La fede, piuttosto che come àncora salvifica o ragione unificante, si impone quale ulteriore elemento di scissione (quando non di esasperazione) dei sentimenti, divenendo talora un fardello semplicemente inefficace e talaltra un lascito quasi demoniaco (il giovane figlio Caleb recita le scritture tra i tormenti della malattia ma la sua “assunzione” finale somiglia più a un’affiliazione maligna). I personaggi sembrano muoversi come tasselli inconsapevoli e simbolici di un disegno finalizzato già all’auto-annientamento, forse un contrappasso rispetto a quella scelta politica di isolarsi dalla comunità di provenienza (in tal senso potremmo leggere in “The Witch” la versione capovolta e più disperata di “The Village”di Shyamalan). Rintracciabile in quel disegno potrebbe esservi perfino una critica alla società americana dell’ultimo secolo, fatta di padri incapaci di gestire le risorse economiche (allusione alla Borsa degli anni ’30 e alla crisi attuale) e di figli sui quali ricadono inevitabilmente i frutti di quelle scelte scellerate. Lo stesso atteggiamento infantile ma spaventosamente accusatorio dei gemelli nel film, più che anticipare i meccanismi della caccia alle streghe di Salem, diventerebbe così il riflesso dell’ansia paranoide americana di ieri e di oggi (prima il comunismo e poi il terrorismo), mentre, in conclusione,  la scomparsa dell’innocente (Samuel il neonato), muterebbe in una triste metafora della scomparsa delle future generazioni ad opera della crisi. Meglio tuttavia non volare troppo in alto con le suggestioni (sebbene Eggers offra più di una scopa a tal fine).

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Se l’assenza di fede (e la negazione del bene) porta il male ad affermarsi compiutamente –divenendo concreto nella figura del caprone mefistofelico Black Phillip– anche l’altra forma di privazione, quella economica, è all’origine della devastazione filmata in “The Witch”. Scriveva l’abate illuminista Girolamo Tartarotti (l’opera è Del Congresso notturno delle lummie) che il fenomeno della stregoneria (legato al culto di Diana Artemide, signora delle selve e protettrice delle donne) si manifestava proprio nei contesti sociali di “persone povere e di contado”, nonché nei “paesi freddi e incolti”, dove la dea Diana, identificata nella sua manifestazione lunare, era assurta al rango di protettrice degli oppressi e degli indigenti. Non è incauto allora affermare che la stregoneria di “The Witch” peschi proprio in quel calderone di suggestioni popolari e protofemministe che, dopotutto, non erano che la replica naturale a quello stato di soggezione economica e psicologica in cui versavano le piccole comunità e in particolar modo le donne, condannate, anche dalla fede, a perire sotto il peso della propria condizione biologica (non a caso Diana è anche protettrice dei parti indolori contro la tradizione cristiana che vuole  invece la donna- Madonna esclusa s’intende- partorire con dolore). La giovane Thomasin è sì l’ambiguo prototipo della strega che abbandona ogni certezza istituzionale per abbracciare il sabba della propria riaffermazione sociale. Lo è perchè costretta in ultimo ad aderire a un sistema di preconcetti ove confluisce un surplus fatto di miseria, nevrosi familiari e reminiscenze storico-religiose. Lo è, però, anche nella misura in cui la società chiede alla donna di aderire a un ruolo prestabilito (compreso quello di tacere proprio come Thomasin non fa quando vomita al padre le sue verità) obbedendo ai dettami del proprio corpo e sacrificando il proprio intelletto. Thomasin è strega insomma, proprio come qualsiasi donna, finchè la società non smetterà di bruciarla. Non è peccato allora, per una volta, librarsi lussuriosamente sopra le fiamme. Non è sconveniente abbandonarsi all’estasi di una liberazione dai gioghi infiniti dei secoli. Perché, almeno al cinema, la dannazione stavolta sembra davvero un’esperienza inebriante e politica e dunque ideologicamente necessaria.

Andrea Lupo

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