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Oscar 2016: sopravvissuti e sopravviventi

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Sopravvissuti e sopravviventi. Prendendo a prestito l’espressione da una nota canzone italiana, potremmo intitolarla così questa 88° edizione degli Academy Awards, forse una fra le più equilibrate ed eque viste negli ultimi anni. “Questo premio dà voce ai sopravvissuti” dichiara nel suo discorso di ringraziamento Michael Sugar, produttore del film premio Oscar dell’anno, il giornalistico “Spotlight”. I “sopravvissuti” citati sono le giovani vittime di uno dei casi più sconvolgenti di abusi sessuali sistematici, portato alla luce nel 2001 da quel team di giornalisti di Boston noto appunto come spotlight. Sopravviventi in un futuro distopico e desertico sono invece i figli della guerra votati al sacrificio e inneggianti al Valhalla protagonisti del capolavoro postmoderno di George Miller “Mad Max-Fury Road”. Infine sopravvissuto (e un po’ “ritornante”) è il Leo Di Caprio di “The Revenant”, protagonista non solo della cruda epopea di resistenza firmata Inarritu, ma anche del “romanzo” (sull’ Oscar mai assegnato) più dibattuto e saccheggiato nell’era del web. Tre opere “diversamente” importanti che si spartiscono idealmente preferenze e, soprattutto, l’“anima” di un Academy forse meno schierata e “prevedibile” rispetto al passato (sebbene l’esclusione di film linguisticamente più radicali come “The Hateful Eight”, “Steve Jobs” e, nella sua totale adesione al “classico”, “Carol” ha demarcato significativamente il territorio dei verdetti possibili).

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Una vittoria “parcellizzata” anche stavolta, dove a mancare non sono stati tanto gli assi pigliatutto (quest’anno è toccato a “Fury Road”) quanto un’idea condivisa di cinema. Per fortuna diremmo. Perché se “The Revenant”, al di là del non immeritato premio al suo protagonista (divenuto però, a causa del tam tam mediatico, quasi una questione sulla tenuta e la credibilità dell’istituzione stessa), incarna quell’idea di cinema che “respira” attraverso le inquadrature, divenendo astrazione per mezzo della sua stessa “fisicità”, “Spotlight” invece dialoga seccamente (e un po’ didascalicamente) col suo interlocutore più diretto – quel pubblico che è innanzitutto lettore di cronaca – senza mai metterlo con le spalle al muro o dinanzi ad uno specchio (sociale), ma accontentandosi di “servirlo” nel suo bisogno di informazione, traendo al contempo credibilità cinematografica dall’imponenza della vicenda narrata. Fra i due, inatteso come una scheggia impazzita, si situa invece il George Miller di “Fury Road”, autore che, partendo dalle coordinate basiche del cinema stesso (suono, ritmo, cromatismi), partorisce nuovamente la propria creatura (l'”Interceptor” del 1979) solo per collocarla al centro di una rivoluzione quasi programmatica del mezzo audiovisivo. Classicità, impegno e sperimentazione pura. Tre storie di sopravvissuti, quelle premiate, che parlano anche di un cinema che vuol (ancora) sopravvivere. Tre tendenze impossibili da rintracciare nella medesima pellicola ma tutte parimenti indispensabili e che, proprio per questo, richiedevano necessariamente una scissione all’interno degli stessi verdetti. Per questo “The Revenant” (Oscar a interprete ma soprattutto a regia e fotografia) non sarà mai meno vincitore di “Spotlight” (film e sceneggiatura) mentre “Mad Max – Fury Road”, dall’alto dei suoi 6 pesantissimi Oscar tecnici (montaggio, costumi, scenografia, sonoro, effetti sonori e trucco), non è che il silenzioso carro trionfatore sul quale l’Academy non ha (ancora) il coraggio di salire.

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Ma “sopravvissuti e sopravviventi” non è solo il tema dei tre film che si sono spartiti quelle undici, determinanti statuette ma anche il leit motiv che guida idealmente la mappa delle interpretazioni premiate. Dalla rivelazione Alicia Vikander (miglior attrice non protagonista), controparte sopravvissuta al dissidio melò della coppia in “The Danish Girl”, al magnifico Mark Rylence moneta di scambio fra due mondi (anch’essi a rischio “sopravvivenza”) ne “Il ponte delle spie”, fino alla premiata (come attrice protagonista) Brie Larson di “Room”, emblema anch’essa di quella coazione a continuare, permanere e soprattutto a non soccombere radicata nell’essere umano. Poi c’è l’Oscar più intenso ed importante di tutta l’edizione, quello assegnato, come film straniero, al bellissimo “Il figlio di Saul”, opera che col pretesto di raccontare l’ennesimo dramma di sopravvivenza, mette in scena una reviviscenza assai più importante, quella della dignità nella morte e della futura memoria. E non occorre essere “umani” per coltivare dentro di sè l’innato bisogno di sopravvivere. Basta anche una macchina o, meglio, una “Ex machina”. Un ‘opera pregevole, rarefatta ed elegantissima quella di Alex Garland che l’Academy ha premiato (inaspettatamente ma meritoriamente, asfaltando “Star Wars” & Co.) per gli effetti speciali giusto per sottolineare quel magnifico lavoro in sottrazione compiuto sui corpi degli automi, così incompleti e mai così espressivi.

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Chiude questa carrellata su un verdetto emblematicamente “revenant”, il meritatissimo riconoscimento a uno storico sopravvissuto (a troppi premi ingiustamente negati) dell’Academy. Un commosso Ennio Morricone capace ancora, in veneranda ma fertilissima età, di insegnare qualcosa di nuovo sul significato di musica e soprattutto di soundtrack. E’ grazie alla potenza dei suoi controfagotti e degli ostinati piazzati ad arte fin dall’incipit di “The Hateful Eight” se sprofondiamo più inesorabilmente in quella storia fatta di redivivi bastardi firmata Quentin Tarantino. Lui sì che a 87 anni conosce davvero il significato di “rinascita”.

Andrea Lupo

LONDON, ENGLAND - DECEMBER 09: Quentin Tarantino and Ennio Morricone pictured inside the control room at Abbey Road Studios ahead of the Live to Lathe Limited Edition Recording of the H8ful Eight Soundtrack on December 9, 2015 in London, England. (Photo by Kevin Mazur/Getty Images for Universal Music) *** Local Caption *** Quentin Tarantino; Ennio Morricone

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