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“Freeheld” – la recensione

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La strada dei film-denuncia o di impegno civile è quasi sempre lastricata di retorica e dejà-vu. Del resto l’impianto stesso e le modalità della narrazione (che deve adeguarsi alla autenticità delle storie e alla loro base documentale) pongono limiti alla “libertà” del narratore, trasformando quest’ultimo in un rispettoso cronista di drammi vissuti sulla pelle altrui e limitando di fatto la sua impronta autoriale. Non è un caso se la battaglia etica e legale più avvincente dell’ultimo ventennio resti ancora oggi quella raccontata in “Philadelphia”, sublime dramma giudiziario che il regista Jonathan Demme, svincolato dalle maglie della classica “storia vera”, mutò in una riflessione sulle distanze morali e corporali fra esseri umani. “Freeheld”, che col film di Demme condivide lo stesso sceneggiatore Ron Nyswaner, si muove sul solco tracciato da quel funereo capolavoro anni ’90, descrivendo una vicenda che stavolta reca nomi e cognomi precisi e che era stata narrata già in un documentario (premio Oscar nel 2007) dal titolo omonimo.

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E’ la storia di due donne Laurel e Stacie (eccellenti Jullianne Moore ed Ellen Page), l’una matura poliziotta l’altra giovane meccanico, dell’amore che sboccia nonostante la differenza d’età e della loro innocua e ordinaria vita di coppia sotto l’egida di una certificazione “di fatto”. Ma è anche, e soprattutto, la storia di due malattie, la prima fisica contro un cancro “ordinario” che interromperà l’idillio sentimentale, e l’altra sociale e politica, metastatizzata più del tumore e perfino meno democratica di questo. Parliamo del morbo che affligge il sistema, quello schizofrenico pregiudizio (non soltanto americano) che non consente a una coppia fondata sull’affetto di destinare la pensione della coniuge morente alla compagna che le sopravvive. Una quaestio che investe l’attualità politica (la negazione del sacrosanto diritto di ogni lavoratore ad assicurare il futuro dei propri congiunti) e che invita a riflettere su una voragine ancora più grande scavata sul terreno accidentato dei diritti umani: l’impossibilità per una coppia “diversa” di lasciare un segno amorevole del proprio passaggio su questa terra. Il film di Peter Sollet non aspira affatto ad essere un nuovo “Philadelphia” (non ne può replicare l’angoscia bruciante e l’affanno) e si risolve esattamente in ciò che promette: un dramma devoto nei confronti di chi è morto (diventando un simbolo) e di chi è sopravvissuto, una storia “semplice” fatta di sentimenti, verità taciute, odiosi pregiudizi d’ambiente e chiassose rivendicazioni sui diritti color arcobaleno.

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Ma c’è dell’altro in esso che va oltre il suo valore aggiunto di stampo meramente civile. Sta racchiuso in quell’intervallo (lessicale) fra miopi “freeholders” (gli assicuratori) che accampano una sorta di nuda proprietà sugli individui (perché negare ad alcuni quei diritti concessi serenamente ad altri equivale ad arrogarsi un dominio arbitrario sulle persone) e chi, come le protagoniste, è invece “freeheld”, trattenuto interiormente. Quella di Laurel e Stacie è la storia di due anime semplici che si incontrano, si amano e mirano a costruirsi pazientemente un futuro lontano mille miglia da ogni battaglia ideologica, mentre intorno a loro funi invisibili si apprestano già a trattenere le libertà “fuori” condizionando simultaneamente quelle “dentro”. Il vero nodo del film sta dunque nel ribadire che nessun essere umano coi suoi sentimenti può essere lasciato nella libera disponibilità di un altro; delitto, piuttosto, è istituzionalizzare questa convinzione fino a farla radicare nella coscienza della collettività. Perché quei sistemi, così impegnati a costruire reti nelle quali imbrigliare ideologie opportunistiche e farisee, mietono ancora vittime silenziose, predisposte e disperatamente “trattenute”. Vittime che non esistono almeno finchè una comunità non decide di cancellarne il passaggio o la stessa memoria, fin quando cioè lo scontro fra normalità domestica e iniquità istituzionale non si fa così assordante da rendere necessaria una battaglia che, prima ancora che i principi, mette in primo piano il diritto di ciascun essere umano a un’esistenza “piena, libera e dignitosa”(per citare la nostra stessa, bistrattata Costituzione). Non è un caso se l’esatto contrario della parola “diritto” in latino sia proprio “tortus”. E se l’attuale scenario sociale è quello che vede, in un paese intimamente reazionario come l’Italia, imbrattati i manifesti di “Freeheld” con scritte omofobiche, allora questo vuole dire soltanto che quella battaglia vale ancora l’ennesimo, ma sempre necessario, film-denuncia.

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Andrea Lupo

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