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“Crimson Peak” – la recensione

AAA
Gotico Ergo Sum. Fra scricchiolii, evanescenze e contrasti spettrali potrebbe essere questo il mantra ispiratore dell’ultima opera di Guillermo Del Toro. Il talentuoso regista di “Blade”e “Il labirinto del fauno” dopo aver dichiarato al pubblico la sua passione per il filone dei kaiju giapponesi (grazie al riuscito “Pacific Rim” ) celebra oggi con “Crimson Peak” la sua infatuazione per il gotico, quel filone dell’horror codificato e reso grande da Mario Bava, Roger Corman e dalle gloriose pellicole Hammer degli anni ’50 e’60. Un’ operazione colta e quasi calligrafica la sua ma anche, al di là di ogni possibile critica (fa paura o no?), un film che trasuda sincerità e fede autentica nel mezzo, merce rare perfino nel cinema di genere. I fan di James Wan però stiano alla larga perché “Crimson Peak” è un catalogo di citazioni ed ossessioni letterarie e cromatiche che non può incontrare il favore della massa. Piuttosto è un sontuoso e raffinato melò in costume con momenti elegantissimi (il valzer con la candela in mano), infarcito di omaggi cinefili a Kubrick e al technicolor degli Hammer e, infine, “anche” una ghost-story in puro stile Del Toro, infestata da ectoplasmi provenienti dal suo personale immaginario e sferzata da irruzioni di violenza perfino inusuali nel contesto. Fra gli echi dei racconti di fantasmi alla Edith Warthon (anche se l’ispirazione dichiarata è il romanzo vittoriano “Uncle Silas” di Joseph Sheridan Le Fanu) e visioni fiameggianti del cinema che fu (e che resiste ancora, Bava su tutti), il regista raffina qui il suo stile adeguando i tempi del racconto cinematografico a quelli più colti di un’opera letteraria, perdendo in tensione forse ma guadagnandoci in bellezza e profondità psicologica. Perché “Crimson Peak”, al di là della classica narrazione su spettri, vendette e case che traspirano nefandezze dal passato, è soprattutto un bellissimo romanzo di formazione femminile ordito minuziosamente fra le maglie di un decadente ritratto sociale.

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C’è un’innocente scrittrice dalle ambizioni frustrate e ancora sentimentalmente “illetterata” (una diafana e perfetta Mia Wasikowska) insidiata da “orchi” aristocratici e seducenti con le scarpe logore (splendidi Tom Hiddleston e Jessica Chastain) e in mezzo a loro il fantasma oscuro di una madre che la mette in guardia dai Barbablù. C’è l’ingenuità di un’anima ancora adolescente che si rigenera dietro (e dentro) ossessioni letterarie fatte di fantasmi psicologici, ma anche l’immaturità (sessuale) che attende solo l’evento che la destabilizzi. Edith “Cushing” (cognome che contiene in sé un’altra citazione cinefila) è l’illusa farfalla che aspetta di essere divorata da diplomatiche falene nere; l’insetto che, appena schiuso dal bozzolo, si apre alla prospettiva nuova, bellissima e minacciosa del mondo fuori. Ma quel mondo, smisurato e incantevole come la dimora acuminata di Allerdale Hall, versa, proprio come l’edificio, in un significativo stato emorragico, metafora evidente di due differenti aspirazioni sociali in cerca di riscatto e in conflitto fra loro: da un lato quella di un’aristocrazia che intende solo rinsaldare i propri privilegi economici (Chastain) e dall’altro quella di una classe che germoglia silenziosamente dentro di essa (Hiddleston), inseguendo nuove aspirazioni ed espressioni (il capitalismo e l’industrializzazione). Entrambe manifestazioni, a loro volta, di sentimenti potenti ma anche divergenti: un amore folle, morboso e distruttivo e un altro melanconico, pietoso e pieno di abnegazione.

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Passioni così laceranti che sembrano aver scavato Allerdale Hall fino a sventrarla, aprendo quel varco in cui si insinuerà la fragile protagonista. I fantasmi più indelebili allora sono quelli celati negli intestini della vicenda piuttosto che i ritornanti color cremisi che appaiono ciclicamente lungo i corridoi. Affrontarli per i tre protagonisti significherà fare i conti con quel mondo che vira inevitabilmente verso ulteriori destini. Per la “farfalla” Edith, in particolare, sarà sì l’occasione per svelare altre “verità nascoste” ma soprattutto l’opportunità per abbandonare il conforto della cecità adolescenziale (barattandola col sangue, virginale prima e degli altri dopo) e dotarsi (finalmente) di un nuovo sguardo e una diversa consapevolezza. Solo allora, sembra suggerire il regista, l’ennesimo racconto di fantasmi potrà trovare credibilità ed essere raccontato. Soltanto dopo la storia potrà (ri)trovare il suo autore e una firma. E Del Toro, che gira con trasporto autentico e passione sincera per la materia trattata, dimostra di voler essere pienamente autore di questo dramma vittoriano con inserti da ghosthouse. L’avventura soprannaturale di un’eroina che “vive” la sua storia (e “sopravvive” ad essa) così da poterla raccontare è in fondo la vecchia trama del narratore che col pretesto di raccontare se stesso “svolge” la sua inedita novella. Sarà pure autoreferenziale ma è cinema che si compone armoniosamente solo per il piacere dei nostri occhi e per mezzo di una danza consapevole, sofisticata e sempre sublime.

Andrea Lupo

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