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“The Martian- Sopravvissuto” – la recensione

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Caro, affezionato Pianeta Rosso. Un flirt cinematografico che dura da sette generazioni o, almeno, da quando esiste il technicolor, mezzo ideale per conferire in giuste dosi un croma-fuoco e quel pizzico di mistero al più mitizzato fra i pianeti del sistema solare. Una relazione, quella fra Marte e il cinema, alimentatasi attraverso decenni di fantascienza metaforica e politica (quel pianeta comunista conteso fra “La guerra dei mondi” e “Gli invasori spaziali”) ed altre eccellenti incursioni (o, meglio, “esplorazioni”) da parte di cineasti come John Carpenter, Tim Burton e Paul Verhoeven. Luogo cinematografico che personifica egualmente la paranoia del terrestre dinanzi alla minaccia extraterrestre ma anche la speranza di abitare nuovi altrove (o al più di svelare chi li ha già abitati) e che oggi diventa vaso linfatico perfetto per alimentare le narrazioni di un sempre più bulimico e instancabile Ridley Scott. Il quarto pianeta distante dal sole e un romanzo di partenza (“L’uomo di Marte”) più vicino a Robinson Crusoe che a Wells, sono i complici della rinascita stilistica del regista britannico, autore che dai tempi di “Thelma e Louise” non concede più capolavori ma, in loro vece, una solidissima e incessante filmografia mainstream fatta di produzioni lussuose ma impersonali (“Robin Hood”, “American Gangster”, “Exodus”), eccentriche variazioni sul genere (“Hannibal”, “Prometheus”) e qualche inaspettato gioiello anti-hollywoodiano che ricorda ancora la grinta degli esordi (“Il genio della truffa”, “The Counselor- Il procuratore”). “The Martian” appartiene a pieno titolo a questa seconda categoria, sia per la freschezza e l’ironia innestate in modo inedito nel registro sci-fi, che per la disinvoltura della messa in scena, precisissima e puntuale sì ma anche distante dall’enfasi seriosa delle ultime produzioni del suo autore.

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Una missione abortita su Marte, un astronauta-botanico ritenuto morto e dunque abbandonato e una missione di recupero dello stesso che smuove i papaveri della Nasa e i compagni di lui ancora impegnati nel viaggio di ritorno. E mentre sulla terra e nello spazio ci si ingegna su come riportare questo cittadino di Marte sul globo terracqueo, il nostro mette in campo ogni possibile competenza chimico-tecnologica (ma soprattutto fitologica) per assicurarsi aria e cibo, cullando una possibile prospettiva di ritorno fra un fedele diario di bordo e le note di una detestata (ma contagiosa) disco-music. Scott, nel piegare le esigenze della narrazione alla fedeltà testuale nei confronti del verboso ma avvincente romanzo di Andy Weir (uno che quanto a dettaglio scientifico non lascia nulla al caso), zigzaga liberamente fra i solchi di “Gravity” e quelli di “Apollo 13”, smarcandosi però (fortunatamente) dalle valenze metaforiche del primo e dalla retorica filo-americana del secondo e giungendo a un risultato finale che è un po’ una rilettura scanzonata ma pur sempre adulta del genere. Trovatelo del resto un altro film spaziale che utilizza diegeticamente (e con una sfrontatezza quasi ironica nei confronti dei valzer dell’antenato “2001”) hit degli Abba, David Bowie, Gloria Gaynor e Donna Summer. Ci vorrebbe il coraggio di un giovane esordiente o, magari, la voglia di rinascere di un grande vecchio come Scott, uno che il proprio mestiere lo ama sinceramente e anche a costo della critica.
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E anche se i discorsi su colonialismo e salvezza non trovano nel film una più graffiante rilettura “politica” (Mark Watney è pur sempre un figlio dell’occidente e va salvato grazie alla sinergia fra superpotenze), restano almeno quei cenni ad una terra vergine ma respingente dinanzi al quale l’uomo non resta altro che un turista effimeramente convinto di essere pioniere. Barlumi di profondità dentro un’opera che resta, nelle intenzioni di Ridley Scott, sempre puro intrattenimento. In un beffardo e smagliante Matt Damon (mai così “nerd” dai tempi di “Will Hunting” e “Dogma”) il regista trova il “compare” perfetto per allestire un tale divertissement ipertecnologico e di classe, mentre in Marte (mai così bello e realistico su grande schermo) rinviene la controparte visiva e seducente del suo cinema lontano, quello fatto di orizzonti da divorare con gli occhi e assaporare con l’anima. E’ indubbio che duellanti e replicanti siano ormai un ricordo lontano per lui, ma la voglia di emozionare e divertire è ancora immutata e vale pienamente il biglietto per questo viaggio a milioni di chilometri dalla terra.
I will survive…

Andrea Lupo

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