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Sinister 2- la recensione

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C’era una volta, nel “non tanto lontano” 2012, un piccolo e inaspettatamente riuscito film horror intitolato “Sinister”. Lo firmava un buon mestierante come Scott Derrickson (“L’esorcismo di Emily Rose”) sotto la produzione del blasonato Jason Blum, responsabile già degli incubi seriali di “Paranormal Activity” e di quelli retrò di “Insidious”. Un silenzioso gioiello che faceva i conti con il POV (quel filone horror che filma il terrore in presa diretta dimenticasi talvolta della verosimiglianza narrativa) risucchiandone però la sua migliore qualità: il senso di profondo disagio suscitato dall’irruzione del mostruoso e dell’incontrollabile nella normalità domestica. Meglio ancora se filtrata dalle immagini mute di filmini in Super 8, dove le tonalità pastose dei quieti quadretti familiari incontravano improvvisamente il sangue e la schizofrenia di delitti immotivati. Il primo “Sinister” si sviluppava intorno all’indagine condotta dallo scrittore Ethan Hawke su quelle inquietanti bobine ritrovate e si spingeva quindi nei territori del soprannaturale verso il disvelamento “storico” di un boogeyman babilonese a nome Bughuul. Niente di trascendentale per un horror per carità, ma quei filmati, sapientemente raccordati a sonorità stranianti e mefitiche, lasciavano il segno, incuneandosi a dovere nei nervi dello spettatore e suscitandogli un malsano dejà vù sui ricordi impressi in memoria (e su celluloide).

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Di tutto questo nell’ “obbligato” seguito di quel gioiello resta giusto qualche leggera traccia (benchè le stragi filmate osino pigiare di più sul pedale del raccapriccio) e così “Sinister 2” parte già sconfitto dinanzi al confronto col suo predecessore, ennesimo sequel condannato aprioristicamente dalle motivazioni essenzialmente “alimentari” del suo produttore (che ne frattempo ha collezionato successi come “The Conjuring”, “Oculus” e perfino il pluripremiato fuori razza “Whiplash”). Ma c’è un “ma” in questa storia di sequel involuti dalla critica e malmenati dal pubblico e “Sinister 2” (come già il riuscito “Insidious 2”) rischia di fare la sua piccola eccezione, nonostante trama e recitazione si situino qualche gradino sotto il livello stabilito dal primo film. Effetti collaterali forse non esplicitamente ricercati ma malgrado tutto realizzati in questa storia di maledizioni che proseguono e filmini ancora da girare e dove le apparizioni fantasmatiche dialogano coi vivi incitando esse stesse al delitto (laddove nel primo film si stagliavano come vittime silenziose e dannate). Perchè l’intuizione “malata” e più originale di questo sequel risiede proprio nel suo apparente e prevedibile snodarsi attraverso una storia fatta di clichè familiari e drammi domestici che attendono soltanto, alla fine di tutto, di essere riconvertiti nella loro istantanea più cupa e disturbata. Non a caso la sequenza più silenziosamente terrificante del film è quella in cui la fotocamera amatoriale ritrae il quadretto domestico -appena ricomposto a colpi di ricatto- nel suo contesto più solare e tranquillizzante, quella rappresentazione di calma apparente destinata di lì a poco ad essere “violata” dal suo regista nel modo più cruento e crudele. Era la medesima “quiete prima della tempesta” che fungeva da prologo essenziale al delitto dentro quei filmini ritrovati del primo capitolo ma sulla quale nessuno si era mai interrogato (forse perché troppo distratto da fantasmi e Bughuul).

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Piccoli ma preziosi istanti di cinema horror che però, in modo efficacemente breve, giungono a segno riuscendo a sottrarre un prodotto ordinario come “Sinister 2” dall’archiviazione istantanea e facendo riflettere simultaneamente tanto sull’orrore “non filmabile” delle violenze domestiche (il “fuoricampo” implicito nella realtà), quanto sui meccanismi di sofisticazione di cui è capace una (qualsiasi) macchina da presa. Potremmo osare ancora e vedere nell’ossessione registica del “portare a termine il film” ad ogni costo (quella che si impossessa di uno dei protagonisti) una deviata modalità di ristabilimento dell’ordine domestico ormai compromesso, ma non occorrerebbe perché il film è già riuscito – mestamente e modestamente- a rimestare bene quelle carte non del tutto scoperte del primo capitolo. Così, senza clamori né altisonanti tentativi di aggiungere alcunchè a una mitologia già avviata (del Bughuul continuiamo a ignorare origine e giustificazioni), questo sequel si affianca con pudore al primo osannato “Sinister”, illuminandolo qua e là di ossessioni ben più inquietanti di quanto non si potesse pensare all’inizio, e fornendo -perché no?- motivazioni più salde al genere stesso (e alla causa dei sequel in generale) di quelle puramente “alimentari”. Non è tutto “horror quel che luccica” ma qualche sinistro bagliore per gli amanti del genere stavolta è assicurato.

Andrea Lupo

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