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Rupert Everett a Taormina: l’importanza di essere un gentleman

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“Respingere le nostre esperienze è arrestare il nostro sviluppo. Rinnegare le nostre esperienze è costringere la nostra vita alla menzogna. È niente di meno che rinnegare l’Anima”. Lo diceva Oscar Wilde nel suo mirabile “De Profundis” ma è una citazione che calza perfettamente con il vissuto avventuroso di Rupert Everett, attore che non ha rinnegato nulla delle sue esperienze e Anima che non ha mai indugiato su nulla, tanto nella carriera quanto nella vita. Ci vuole più di una biografia (nella realtà ne ha già scritte due, “Anni svaniti” e “Bucce di banana”) per testimoniare tanta ricchezza individuale e per restituire pienamente quel punto di vista, tra l’ironico e il pungente, sul mondo e la fauna che lo abita. E se è vero che soltanto le stelle possono permettersi di guardare il mondo dall’alto, quelle del cinema possono osare di più scendendo sulla terra per “sporcarsi” con esso, tornando infine nuovamente lassù un po’ più vere e consapevoli.

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Rupert Everett, per restare nella metafora, è uno di quegli astri ascesi al firmamento con disinvoltura e uomo che può discendere da lì a proprio piacimento e con la medesima noncuranza british del suo modello filosofico di sempre, Oscar Wilde. Le assonanze spirituali fra i due sono parecchie e anche se nella vita di Everett manca (fortunatamente) un processo come quello subito dallo scrittore inglese, non si può dire che l’esilio dalla Hollywood che conta, o il confino nei territori della commedia leggera con il marchio di eterno “miglior amico”, non suonino come dei silenti e spietati rinvii a giudizio di carriera. Ma di tutto ciò a Everett poco importa o, meglio, ha giusto il peso di una ferita interiore che non va certo esibita quanto dissimulata dietro una maschera perfetta di eleganza e sobrietà. Una di quelle maschere che finiscono per diventare un volto nuovo e credibile. Del resto a che serve autocompatirsi se la tua carriera annovera bellissimi film inglesi (Another Country, Ballando con uno sconosciuto, La pazzia di Re Giorgio), cult mondiali come “Il matrimonio del mio miglior amico” (che deve al suo personaggio metà della fortuna) e se puoi permetterti ancora teatro, biografie al vetriolo e un succoso progetto cinematografico su Oscar Wilde con amici come Colin Firth e Emily Watson nel cast? Certo, resta un piccolo rammarico, quello di non poter vedere il film su uno 007 gay (quel “Jane Bond” lanciato come battuta nel finale del “Matrimonio” e suggerimento mai accolto dall’ottusa Hollywood “bushiana” di fine anni ’90), ma non dimentichiamo che pochi come lui possono vantare di essere divenuti icone immortali della cultura pop (Dylan Dog) del secondo e anche terzo millennio.

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A completare questo ritratto (di Dorian Gray s’intende) mancherebbe solo il meritato titolo di “sir” che, vogliamo sperarlo, magari arriverà fra breve (anche se a lui poco importerebbe). Protagonista di una TaoClass fra le più sobrie ed eleganti del Festival, Rupert Everett è un dandy della maturità, di quelli che non deve necessariamente sorprendere ostentando atteggiamenti controcorrente, ma che sa stupire grazie alla disarmante e fierissima onestà. Atteggiamenti intellettuali che, nell’età delle apparenze, sembrano puro anticonformismo. Come restare indifferenti dinanzi a tanta classe? E come omaggiare degnamente l’icona ispiratrice di milioni di tavole dei fumetti se non con un disegno?

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Lui, indimenticato Dellamorte Dellamore del cult di Michele Soavi, non solo accoglie con calore l’omaggio di Vois ma si concede tranquillamente a una foto con l’autore, balzando giù dal palco ed infrangendo i rigidi protocolli del Festival che vogliono pubblico e stampa fisicamente disgiunti dalla star. Da quel balzo atleticamente perfetto e l’atteggiamento cordiale capiamo soprattutto una cosa: Rupert sarebbe stato davvero un “Jane” Bond cinematograficamente perfetto. E, neanche a dirlo, meravigliosamente “wildiano”.

Testo e disegno di Andrea Lupo
Foto di Danilo Vitale

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